Visualizzazione post con etichetta analisi matematica. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta analisi matematica. Mostra tutti i post

domenica 16 settembre 2012

Una rilettura: Il codice perduto di Archimede

Sto rileggendo (dopo qualche anno) un libro uscito nel 2007 e relativo alla riscoperta del manoscritto C di Archimede di Siracusa. Eccolo qua:

Reviel Netz e William Noel    
Il codice perduto di Archimede
Rizzoli 2007, pp. 424


Nella seconda lettura si trovano meglio molte indicazioni di sicuro interesse, che avevo in gran parte dimenticato. Sarà la nuova maturità dei 40 anni... Condivido quindi le considerazioni di una recensione che avevo all'epoca appuntato (tratta da Galileo: giornale di scienza, all'URL http://www.galileonet.it/articles/4c32e1dc5fc52b3adf0022dc) 

Una prima riflessione è sulla fortuna di avere accesso alle opere dell'antichità classica. Prima della nascita della stampa, infatti, l'unico modo per avere una copia di un testo era appunto farne una copia a manoo. Se poi aggiungiamo le distruzioni più o meno volute che nel corso dei secoli hanno falcidiato le biblioteche, arriviamo a capire facilmente come spesso le nostre conoscenze siano più che altro frutto del caso. Prendiamo ad esempio i lavori di Archimede. Nel 1311 tutta la conoscenza diretta che si aveva della sua opera era contenuta in due soli manoscritti, il codice A e il codice B, entrambi appartenenti al papa e databili intorno al decimo secolo. Del codice B si persero immediatamente le tracce, fortunatamente dopo che era stato ricopiato; il codice A svanì nel 1564. Solo nel diciannovesimo secolo si scoprì in un monastero ortodosso in Palestina un terzo codice, sotto forma di palinsesto, che conteneva alcune opere prima a noi sconosciute come il Metodo. Lo studioso danese John Ludwig Heiberg curò una versione, anche se lacunosa visto il pessimo stato di conservazione della pergamena, e anche questa fu una fortuna: il manoscritto sparì nuovamente, per riapparire nel 1997 a un'asta, in condizioni ancora peggiori e addirittura falsificato con le immagini degli evangelisti dipinte sopra alcuni fogli. 

“Il codice perduto di Archimede” è la storia degli sforzi di questi ultimi dieci anni per riuscire a leggere anche le parti del testo che Heiberg non poté vedere, perché coperte dalla rilegatura, e delle nuove scoperte che sono state fatte. Gli autori provengono da esperienze completamente diverse: William Noel è il curatore della sezione manoscritti del Walters Museum di Baltimora, dove il codice è custodito per conto del miliardario che l'ha acquistato, menter Reviel Netz è un israeliano, professore di lettere classiche alla Stanford University ed esperto di matematica greca classica letta - o forse occorrerebbe dire "desunta", vista la difficoltà di comprensione dei palinsesti - direttamente negli originali. I due si alternano a raccontare la storia antica e recente del manoscritto, così come tutte le ipotesi che si possono fare sulle conoscenze di Archimede, che sembrano essere maggiori di quanto si potesse credere ancora nel secolo scorso. 

È possibile che l'entusiasmo di Netz, che per esempio si dice convinto che il Siracusano sia stata la prima persona a fare matematica combinatoria avendo come unica fonte una quasi illeggibile prima pagina del trattato sullo Stomachion, sia esagerato. Però questo entusiasmo è contagioso, e non solo ci fa capire come la filologia possa essere un campo davvero appassionante, ma ci dà anche alcune informazioni totalmente inaspettate sul modo di pensare degli antichi greci. Per esempio, i diagrammi medievali che accompagnano i testi matematici sono fatti per raffigurare con la maggior precisione possibile le figure di cui si parla: ma il palinsesto ha figure esplicitamente "sbagliate", come i lati dei poligoni inscritti in una circonferenza che non sono segmenti, ma linee curvate verso l'interno. Questo non è il risultato di un'imperizia dell'amanuense; al contrario, i matematici greci cercavano proprio di fare in modo che non ci fosse nulla che fosse "chiaramente visibile", per evitare di fare delle ipotesi errate basandosi solamente sul disegno.

Ma il libro non parla solamente di matematica, c'è anche tanta tecnologi. Per riuscire a tirare fuori informazione da quel povero testo che stava andando a pezzi sono state impiegate tecniche di ogni tipo, dall'analisi spettrale a varie frequenze luminose e nell'ultravioletto per creare immagini a falsi colori fino ad arrivare alla spettrografia a raggi X che permette di scoprire le tracce del ferro contenuto nell'inchiostro usato dall'amanuense, e quindi ottenere un'immagine di quanto era stato coperto dalle miniature aggiunte nel ventesimo secolo: un po' come quando si scoprono le versioni dei quadri prima che il pittore ci dipingesse di nuovo sopra, con la differenza che la precisione richiesta per riuscire a visualizzare le minuscole lettere greche deve essere molto maggiore.


Insomma una cosa da leggere e rileggere...

mercoledì 7 settembre 2011

Pappo di Alessandria e le Collezioni Matematiche

Da un po' di tempo rifletto sulle connessioni esistenti fra le matematiche antiche e quelle moderne e quanto siano importanti per queste ultime, le conoscenze ereditate da quelle più antiche. In questo quadro di pensieri, un nome viene spesso alla mante di chi ha letto qualcosa di storia delle matematiche. Pappo d'Alessandria. Chi è costui, si chiederanno tutti quelli che l matematica l'hanno studiata a scuola. Il nome dice poco ma in realtà il suo lavoro è stato un formidabile resoconto della matematica ellenistica e soprattutto la riscoperta delle sue carte è stato un vero "boost" per la rinascita delle scienze e delle matematiche nel Rinascimento.  Per tentare di onorare la memoria di Pappo, ripropongo una bella paginetta tratta dal sito web del Prof. Montanari dell'Università degli Studi di Ferrara: http://web.unife.it/altro/tesi/A.Montanari/Pappo.htm


Dalla morte di Apollonio, la geometria classica non aveva più trovato nessun sostenitore. Tuttavia, durante il regno di Diocleziano (284-305), visse ad Alessandria uno scienziato animato dallo spirito che aveva posseduto Euclide, Archimede e Apollonio: Pappo di Alessandria. Verso il 320 compose un'opera dal titolo Collezioni matematiche, di cui possiamo vedere la prima pagina nella traduzione fatta da Commandino e pubblicata nel 1588 a Pesaro.

Quest'opera è molto importante in quanto ci fornisce una preziosa documentazione storica concernente alcuni aspetti della matematica greca che altrimenti sarebbero rimasti sconosciuti. Per esempio, è dal Libro V delle Collezioni che siamo venuti a sapere della scoperta di Archimede dei tredici poliedri semiregolari, noti come "solidi archimedei" (è possibile trovare una traduzione in inglese del passo del Libro V [47]). Le Collezioni contengono anche dimostrazioni alternative e lemmi supplementari relativi a teoremi di Euclide, Archimede, Apollonio e Tolomeo. Infine, il trattato presenta nuove scoperte e generalizzazioni che non è dato trovare in nessuna opera precedente.
Essa è suddivisa in 8 libri di cui il primo è andato completamente perduto e il secondo perduto in parte. In questo caso, la perdita è meno grave di quella degli ultimi libri dell'Arithmetica di Diofanto: sembra infatti che i primi due libri riguardassero prevalentemente i principi del sistema di tetradi introdotto da Apollonio nella numerazione greca.

Nel Libro III Pappo fa una netta distinzione tra problemi "piani", "solidi" e "lineari": i primi sono costruibili solo con cerchi e rette, i secondi sono risolvibili mediante l'uso di sezioni coniche e l'ultimo genere di problemi richiede curve diverse da rette, cerchi e coniche. Pappo descrive poi alcune soluzioni dei tre famosi problemi dell'antichità: la duplicazione del cubo e la trisezione dell'angolo vengono presentate come problemi del secondo tipo, ossia come problemi solidi, e la quadratura del cerchio come un problema lineare. In questo contesto Pappo afferma virtualmente che i problemi classici presentano soluzione impossibile sotto le condizioni platoniche, poiché non appartengono alla categoria dei problemi piani. Tuttavia, solo nel XIX secolo si giunse a dare dimostrazioni rigorose di tale fatto.
Nel Libro IV Pappo torna a insistere sul fatto che ogni problema richiede una costruzione appropriata. In altre parole, non si dovrebbero usare luoghi geometrici lineari nella soluzione di un problema solido, né luoghi geometrici solidi o lineari nella soluzione di un problema piano. Considerando la trisezione di un angolo come un problema solido, suggerisce pertanto metodi che fanno uso di sezioni coniche, mentre Archimede in un caso aveva usato una neusis ossia una costruzione del tipo di quella su cui è basato il regolo calcolatore e in un altro caso era ricorso alla spirale, che è un luogo geometrico lineare.
Nel Libro IV troviamo anche delle generalizzazioni di teoremi precedenti. Per esempio vi è la generalizzazione del teorema di Pitagora: se ABC è un triangolo qualsiasi e se ABDE e CBGF sono parallelogrammi qualsiasi costruiti su due dei lati, allora Pappo costruisce sul lato AC un terzo parallelogramma ACKL uguale alla somma degli altri due. Per esaminare il metodo utilizzato si può accedere al sito L'area di Pappo [48]. Un altro esempio di generalizzazione è costituito da un'estensione dei teoremi di Archimede sul "coltello del calzolaio". Tale generalizzazione afferma che, se si inscrivono successivamente cerchi P¹, P², P³, ... come nella Fig. 1, tutti tangenti ai semicerchi costruiti su AB e su AC, e successivamente tangenti l'un l'altro, la distanza perpendicolare misurata dal centro dell'n-esimo cerchio alla base ABC è uguale a n volte il diametro dell'n-esimo cerchio.

Fig. 1
Il V libro contiene la trattazione dei problemi di isoperimetria, compresa la dimostrazione che il cerchio possiede, per un dato perimetro, un'area maggiore di qualsiasi poligono regolare. Altri risultati sono:
1. tra i poligoni regolari, a parità di perimetro, quello che ha area più grande è quello che ha il maggior numero di lati;
2. tra tutti i triangoli di assegnato perimetro, con la stessa base, quello che ha area maggiore è l’equilatero;
3. tra i poligoni, quelli con area maggiore sono le figure convesse, in particolare i poligoni regolari.
Qui sembra che Pappo abbia seguito il trattato Sulle figure isometriche scritto quasi mezzo millennio prima da Zenodoro (180 a.C. circa), di cui sono stati conservati dei frammenti di altri commentatori posteriori. Fra i teoremi del trattato di Zenodoro vi era quello che afferma che tra tutte le figure solide con uguale superficie la sfera possiede il massimo volume, ma ne veniva data solo una giustificazione incompleta.
I Libri VI e VIII riguardano principalmente le applicazioni della matematica all'astronomia, all'ottica e alla meccanica (compreso un tentativo di trovare la legge del piano inclinato).
Il Libro VII riveste un ruolo primario per la storia della matematica, nel campo della geometria analitica.
La geometria greca si era limitata, fino a quel momento, allo studio di curve piane; è pertanto significativo il fatto che Pappo presenti in questo libro un problema generalizzato che comporta un numero infinito di nuove curve. Questo problema è noto come il "problema di Pappo"; la sua formulazione originaria, però, che comporta tre o quattro rette, sembra risalire al tempo di Euclide e sembra che si debba una sua soluzione ad Apollonio. Nondimeno da Pappo si ricava l'impressione che i matematici precedenti non siano riusciti a darne una soluzione generale; egli conferma, così, implicitamente di essere stato il primo a mostrare che tale soluzione è in tutti i casi una sezione conica. Inoltre, Pappo considerava il problema analogo per più di quattro rette. Nel caso di sei rette giacenti in un piano, egli riconosceva che una curva è determinata dalla condizione che il prodotto delle distanze da tre delle rette abbia un rapporto fisso con il prodotto delle distanze delle altre tre. Pappo esitava a considerare casi che comportassero più di sei rette per la ragione che

non esiste nessuna cosa che sia contenuta da più di tre dimensioni.
Pappo non approfondì oltre lo studio di questi luoghi geometrici, ma fu senz'altro questo problema, ripreso in seguito da Descartes, il punto di partenza per l'elaborazione della geometria analitica.
In questo libro vi è poi un'esposizione completa del metodo analitico e viene descritta una raccolta di opere precedenti che hanno utilizzato il metodo di analisi e di sintesi, nota come il Tesoro dell'analisi. Pappo descrive l'analisi come

un metodo consistente nel considerare come ammesso ciò che si cerca e nello sviluppare le conseguenze sino a giungere a qualcosa che viene ammesso come risultato nella sintesi.
Quindi, egli considerava l'analisi come una "soluzione alla rovescia", i cui passi andavano ripercorsi in senso inverso perché potesse costituire una dimostrazione valida. Se l'analisi porta a qualcosa che si ammette essere impossibile, anche il problema sarà impossibile, poiché una falsa conclusione implica una falsa premessa.
Tra le opere costituenti il Tesoro dell'analisi Pappo elenca i trattati sulle coniche di Aristeo, di Euclide e di Apollonio. Circa la metà delle opere elencate da Pappo sono andate perdute, tra cui la Sezione di un rapporto di Apollonio e i trattati Sulle medie di Eratostene e Sui porismi di Euclide.
Nel Libro VII compaiono teoremi molto importanti, tra i quali quello noto come "teorema di Pappo" sugli esagoni [49]:

Dato un esagono di vertici 1, 2, 3, 4, 5, 6, se i vertici di indice dispari appartengono a una retta e quelli d'indice pari a un'altra retta complanare, allora i punti X, Y, Z di incontro di coppie di lati opposti dell'esagono sono allineati.
Una generalizzazione del teorema di Pappo è il teorema di Pascal [50] su un esagono inscritto in una conica, e nel sito Configurazione di Pappo per i cerchi [51] si possono studiare in movimento i casi in cui le rette sono sostituite da iperboli e ellissi.
Un altro teorema che compare qui per la prima volta è quello che solitamente viene indicato col nome di Paolo Guldino, un matematico del XVII secolo (vedi teorema di Pappo-Guldino [52]):

Se una curva piana chiusa viene fatta ruotare intorno a una retta che non attraversa la curva, il volume del solido così generato viene calcolato facendo il prodotto dell'area delimitata dalla curva per la distanza percorsa durante la rotazione dal centro di gravità dell'area.
Pappo era orgoglioso di questo teorema estremamente generalizzato: esso comprendeva infatti "un gran numero di teoremi di ogni sorta concernenti curve, superfici e solidi, i quali venivano dimostrati tutti simultaneamente mediante un'unica dimostrazione". Tale teorema è il più generale che si conosca nell'antichità relativamente al campo dell'analisi infinitesimale.


Le Collezioni matematiche di Pappo è l'ultimo trattato matematico veramente significativo dell'antichità, poiché il tentativo da lui fatto di ridare alla geometria nuova vitalità non fu coronato dal successo. Si continuarono a scrivere opere matematiche in greco per un altro millennio circa, ma gli autori che vennero dopo Pappo non raggiunsero mai il suo livello. Le loro opere hanno quasi esclusivamente la forma di commento a trattati anteriori. Lo stesso Pappo è parzialmente responsabile del proliferare di commenti del genere: anch'egli aveva composto commenti agli Elementi di Euclide e all'Almagesto di Tolomeo, ma di questi sono pervenuti solo dei frammenti. Commenti posteriori, come quelli di Teone di Alessandria, sono più utili per le informazioni storiche che contengono che non per i risultati matematici presentati.

lunedì 6 giugno 2011

PROVE INVALSI: ecco le soluzioni

Ecco, scaricabili, le soluzioni guidate delle prove Invalsi di matematica proposte alle classi seconde delle scuole secondarie superiori lo scorso 10 maggio 2011.




cliccate sull’immagine per scaricare il fascicolo in formato pdf, protetto non stampabile.

sabato 12 febbraio 2011

Matematica e integrazione 1/2

Lascio da parte le mie consuete riflessioni storiche per divulgare le considerazioni di un celebre etnomatematico, Giovanni Nicosia, in merito al ruolo che la matematica può svolgere nell'integrazione culturale di cittadini di diversa origine etnica e religiosa.
Ringrazio OGGISCIENZA (http://oggiscienza.wordpress.com) per averla pubblicata sul web e ROberto Cantoni per averla realizzata.
Come già avvenuto su OGGISCIENZA, anch'io procederò ad una pubblicazione in due puntate, ecco la prima.



“Ovvio”, penserà una buona parte dei lettori leggendo il titolo. Quasi tutti coloro che abbiano frequentato una scuola superiore avranno infatti incontrato nella loro vita almeno un integrale. Ma l’integrazione di cui si parla qui non è quella dell’analisi matematica. Ci riferiamo invece a un’altra integrazione, quella culturale.
Le classi delle scuole italiane diventano sempre più multiculturali: in alcune zone d’Italia si è raggiunta una percentuale di tutto rispetto di studenti provenienti da famiglie di culture diverse da quelle italiane. Variando la cultura di provenienza degli alunni, varia anche il loro modo di comprendere: a ogni paese possono corrispondere una miriade di retroterra differenti (si pensi anche soltanto alla quantità di gruppi etnici presenti in India). Cambiano quindi le concezioni di studio e di scuola che gli studenti ereditano dalle famiglie; cambiano soprattutto le lingue. Ma non solo: anche materie considerate tradizionalmente “universali”, come la matematica, variano da un luogo all’altro. Lo scienziato strabuzza gli occhi e si chiede come sia possibile: lo abbiamo chiesto a Giovanni Nicosia, insegnante di superiori, collaboratore del Gruppo di ricerca e sperimentazione in didattica e divulgazione della matematica (Rsddm) e del Gruppo di studio internazionale di etnomatematica(Isgem). Nicosia ha pubblicato recentemente due libri, Alla scoperta delle culture matematiche nell’epoca della globalizzazione nel 2008, e Cinesi, scuola e matematica nel 2010, che affrontano proprio il tema del multiculturalismo in matematica.

OS: Nicosia, dopo molti Paesi d’Europa anche in Italia la scuola comincia a diventare multiculturale.
GN: In realtà, è molto tempo che abbiamo classi multiculturali, specialmente nel nord e in tutte le grandi città. Le differenze regionali e sociali sono rimaste enormi sino a quando la televisione e la grande distribuzione commerciale non le hanno piallate via, eliminando le lingue regionali e municipali (i cosiddetti “dialetti”) e uniformando i comportamenti. L’Italia è il Paese delle città-stato, dei rimescoli di popolazioni e delle migrazioni. E non si tratta di differenze da poco: lingue con lessico e sintassi anche molto diversi e con storie diverse (il bolognese, il sardo, l’albanese, il tedesco…), religioni (oltre alla presenza storica di ebrei e valdesi, chiediamoci che cosa avranno in comune il rito ambrosiano e certe forme di devozione che si incontrano al sud, pur nell’involucro del cattolicesimo italiano), e in generale modi di vivere, sistemi di credenze e usi. Se penso al condominio in cui sono cresciuto, a Bologna, diciamo negli anni ’80, in quindici appartamenti erano rappresentate sette regioni (tre in casa mia) e continuamente ci si stupiva per quello che dicevano o facevano i vicini.
A lungo questa diversità è stata vista come un peso e nascosto, forse perché contrario alle pretese di omogeneità dell’ideologia dello Stato-Nazione, ed è stato combattuto. Ma questo atteggiamento che animava l’azione della scuola e di tante altre istituzioni culturali ha fatto sparire codici e saperi.
Oggi siamo generalmente un po’ più aperti: per dirne una, le erbe che usano gli indios brasiliani o gli infusi della medicina tradizionale cinese sono allo studio delle multinazionali farmaceutiche, che hanno capito che ci può essere del buono e quindi da guadagnare.
OS: Crede che, per venire incontro alle nuove esigenze, occorrerà modificare i testi scolastici?
GN: L’obsolescenza dei libri e dei programmi è un eterno problema della scuola italiana. In campo matematico poi il conservatorismo di insegnanti, editori e persino studenti, che sono rassicurati dalle vie battute, è impressionante. Ha grande successo un testo la cui prima edizione risale agli anni ’40 del secolo passato! Un altro, anch’esso molto diffuso, risale alla fine degli anni ’60. Sempre aggiornati di anno in anno, con impaginazioni, figure e capitoli nuovi, e sempre mostruosamente uguali a loro stessi, presentano una matematica che si rivolge ad un pubblico che non esiste più. Ragazzi che hanno competenze nuove nate dall’uso del cellulare e di mille altri strumenti vivono una matematica che con la loro vita ha ben poco a che fare. Ho parlato delle superiori: alle elementari le cose vanno molto meglio, nel senso che gli insegnanti sono più coraggiosi nello sperimentare cose nuove. Tra gli aggiornamenti, insieme a qualche tema di storia della matematica, compaiono ora anche temi interculturali, ma per lo più velati da una forma di esotismo ingenuo. Si dice che i Cinesi “facevano” i quadrati magici, come se si potesse parlare solo di mandarini morti da mille anni. I Cinesi “facevano” i quadrati magici così come i Romani “facevano” gli acquedotti: oggi gli uni e gli altri fanno anche molte altre cose. Molti dei genitori dei nostri studenti di cultura cinese sanno usare con relativa destrezza il pallottoliere, in casa si dilettano di gare di calcolo mentale rapido, e se gli chiedi di fare una divisione ti stupiranno per l’algoritmo che usano. Ma ci sono insegnanti in tutte le scuole che non accettano che quello che hanno imparato ed insegnato loro: una divisione è corretta se e solo se è fatta con quell’algoritmo che ritengono l’unico universalmente valido, di cui magari ignorano la storia ed il nome. È una forma di provincialismo dalla quale la nostra cultura scientifica, quella vissuta nelle nostre scuole, stenta un po’ a liberarsi.
OS: Si è sempre parlato di differenze culturali in ambito letterario, storico, gastronomico. Ma almeno le scienze non dovevano essere “oggettive”?
GN: Direi piuttosto che ciò che dovrebbe stupirci è perché invece la matematica sia stata ritenuta unica ed universale, come se non fosse una delle tante attività umane, produzione di uomini aggregati in gruppi sociali che condividono simboli e codici di comunicazione. La pretesa oggettività della scienza si riduce, in realtà, alla rispondenza di una parte di queste produzioni a certi criteri di accettabilità che nel corso di secoli sono stati elaborati ed imposti universalmente da un gruppo sociale e culturale molto importante (quello che ha creato il sistema economico e simbolico interdipendente in cui viviamo oggi), ma non erano certo gli unici e inoltre sono molto cambiati nel tempo. Quello che era oggettivo per Galileo (se vogliamo tagliare fuori gli antichi) non lo era per tanti altri e non è detto che lo sia anche per i contemporanei, e d’altra parte credo che Galileo non avrebbe mai potuto accettare la teoria del caos o la meccanica statistica. In matematica tutto ciò è anche più evidente, anche se, curiosamente, meno accettato. Gli storici riconoscono a Cauchy il merito di avere finalmente dato una definizione di limite, ma se andiamo a leggere i suoi testi del 1821 e 1823 troviamo che le asserzioni sono concatenate in un modo che ai contemporanei non suona corretto: anche il rigore logico è esposto alle evoluzioni della storia. Nella storia della scienza ci sono molti casi del genere. Le scienze evolvono, oltre che per sviluppi interni, soprattutto in relazione alle esigenze delle società e dunque possono essere molto diverse tra loro per interessi e per metodi a seconda del gruppo umano che le produce. L’agopuntura è oggi considerata una terapia scientifica dalla maggior parte dei medici, ma una trentina d’anni fa la si derideva come una specie di stregoneria. Cose del genere sono successe anche al matematico boemo Bolzano (che era un tipo controcorrente per diverse ragioni) e al tedesco Dirichelet.
OS: A proposito di multiculturalità: è molto diffusa l’idea che gli studenti cinesi e indiani siano particolarmente dotati in matematica. Lei che ne pensa?
GN: È verissimo. Salvo variabili individuali, solitamente gli studenti cinesi e dell’area indiana sono moto bravi. Seguono poi i ragazzi dell’Europa dell’Est e del decaduto impero sovietico. Lo dimostrano sia le rilevazioni internazionali (le più famose sono P.I.S.A. e T.M.M.S.) sia le testimonianze di tanti insegnanti delle scuole italiane. Imparano in fretta le procedure e le definizioni ma sono bravi anche nelle inferenze e deduzioni, che sono la parte interessante ed utile.
Le spiegazioni di tali ottime capacità sono diverse. Prima di tutto nelle culture cinese e indiana la scuola è importantissima. Nelle famiglie di questi ragazzi si ha l’idea che per studiare abbia senso affrontare anche grandissimi sacrifici e che quando si è a scuola ci si debba comportare molto seriamente. Le famiglie fanno grande propaganda perché i loro rampolli si impegnino al massimo e ottengano ottimi risultati. D’altra parte in Cina e in India è anche vero che il voto in matematica ed in inglese può fare grandi differenze nella vita futura, può aprire delle carriere, e forse è questo che hanno in testa quei genitori, anche se in Italia la situazione è ben diversa. La scuola non è vista solo come preparazione ad uno studio di ordine superiore (tipicamente l’università) ma come formazione della personalità per la vita futura. Inoltre l’autorità dell’insegnante è rispettatissima. Tutto questo vale in misura un po’ meno accentuata anche per gli studenti dell’Europa dell’Est, le cui famiglie propongono spesso idee di scuola legate a metodi senza dubbio un po’ opprimenti, ma basate comunque su di un intenso impegno personale.
C’è poi un secondo motivo, anche questo di carattere socioculturale: tra i diversi campi del sapere e delle attività ritenute interessanti, cinesi, indiani, romeni e russi mettono ai primi posti proprio la matematica. Passatempi matematici caratterizzano le storie di queste culture, ci sono testimonianze anche molto antiche di attività di raccolta di problemi e manualistica tecnica e scientifica. Si raccontano leggende in cui il ragionamento logico è la chiave per il trionfo dei protagonisti sulle avversità, e le opere dell’ingegneria e della tecnologia (dalla Grande Muraglia allo Sputnik) sono sovente apprezzate per le loro caratteristiche tecniche. Nel sentire diffuso di queste popolazioni una persona è ritenuta colta o intelligente se conosce molta matematica, a differenza di quanto accade nella cultura italiana, in cui si prediligono le lettere e le arti.
Un terzo motivo riguarda invece la struttura delle lingue e dei sistemi di rappresentazione dei numeri. Studi linguistici e statistici dimostrano un’interessante connessione tra la lingua cinese e la buona riuscita in matematica in scuole di diversi Paesi. Il sistema della lingua cinese per nominare e scrivere i numeri (cioè il sistema dei “numerali”) è forse quello più regolare al mondo, per cui basta pronunciare o scrivere per bene un’addizione perché essa appaia già in una forma comoda per i calcoli. Ciò è particolarmente evidente per le somme tra numeri della seconda decina, che invece fanno impazzire gli studenti delle prime classi delle elementari italiane. Riuscendo bene fin dall’inizio, i bambini cinesi non si spaventano dei calcoli, non associano alla matematica l’idea di una materia difficile e noiosa, e quindi proseguono con buoni risultati.
Qualcosa di simile si può dire dei bambini russi e romeni, che in più hanno una lingua ricca di concordanze e declinazioni che li abitua al ragionamento logico.
Un ultimo elemento si può trarre dalla struttura della lingua cinese, che è composta di caratteri da comporre tra loro con modalità che stimolano il ragionamento algebrico. Anche le modalità di scrittura delle lingua indiane hanno probabilmente effetti positivi sul modo di rappresentare numeri e spazio.

mercoledì 6 ottobre 2010

Riflessioni sulla matematica greca 2 / Un punto di vista particolare: Giacomo Leopardi



“La poesia e il pessimismo di Leopardi li considero la più bella espressione di quello che dovrebbe essere il credo di uno scienziato”. Parola nientemeno che di Bertrand Russell. Parola emblematica, che vede il grandissimo letterato, l’icona eletta del Parnaso italiano, l’autore dei Canti, dello Zibaldone, delle Operette Morali associato al mondo della scienza.



A soli 14 anni Giacomo, con il fratello Carlo, dà alle stampe un Saggio di chimica e di storia naturale; l’anno dopo, nel 1813 scrive la Storia dell’Astronomia cui fanno seguito le Dissertazioni fisiche, Dissertazioni sull’origine dell’Astronomia, il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi.



Arrivata l’età della ragione, poi, che per il poeta di Recanati coincide con il graduale approdo al “sentimento” e a tutta una poetica personalissima, Leopardi non cancella ex abrupto tutto il suo passato di homo
scientificus. Nello Zibaldone questo retaggio emerge continuamente tra riferimenti espliciti o allusioni indirette.



E la matematica? Qui il discorso si fa più articolato.
Nella produzione leopardiana infatti si trovano riferimenti alla matematica, non frequentissimi, di cui il più significativo è un passo dello Zibaldone in cui il poeta afferma che “Nulla di poetico si scopre quando si guarda alla natura con la pura e fredda ragione, quindi nulla di poetico potranno mai scoprire la pura e semplice ragione e la matematica”. Da questa affermazione sembra quasi che Leopardi nutra una
diffidenza “lirica” nei confronti della matematica, che si rafforza parallelamente all’evoluzione della poetica leopardiana, dall’ottimismo illuministico delle prime opere al pessimismo cosmico delle ultime.



Una diffidenza “lirica” che, nel caso della matematica dei Greci, sfocia in una sorta di “congiura del silenzio”, visto che della matematica antica Leopardi non parla direttamente. E il fatto stupisce dal momento che è ben noto quanto il mondo degli antichi, e dei Greci in particolare, sia stato così determinante nella poetica e nel sistema filosofico di Giacomo Leopardi.



Dice Leopardi: “Segno certo che l’universo è opera di un intelletto infinito. Ma sapete voi che dall’estensione e forza dell’intelletto dell’uomo, a un’estensione e forza infinita ci corre uno spazio infinito? L’intelletto umano non è atto a immaginare un piano come quello dell’universo. Ma un intelletto mille volte più forte ed esteso dell’umano potrà pure immaginarlo. Dite dunque un intelletto maggiore (…). Non arriverete mai ad un intelletto infinito e però mai ad un intelletto grande, se non relativamente, e però mai ad un intelletto divino”.
Afferma Laplace: “Se un’Intelligenza che, per un dato istante, conoscesse tutte le forze di cui è animata la natura e la situazione rispettiva degli esseri che la compongono, se di più fosse abbastanza profonda per sottomettere questi dati all’analisi, abbraccerebbe nella stessa formula i movimenti dei più grandi corpi dell’universo e dell’atomo più leggero: nulla sarebbe incerto per essa e per l’avvenire, come il passato, sarebbe presente ai suoi occhi. Lo spirito offre, nella perfezione che ha saputo dare all’astronomia, un pallido esempio di questa intelligenza”. 
Suscita stupore quanto i due passi corrano paralleli ma anche quanto siano destinati a non incontrarsi: in  Leopardi manca quella fiducia, ben tangibile in Laplace, nei progressi dello spirito che con l’astronomia pare aver raggiunto i confini di un’intelligenza certa e sicura. Il poeta non nega che la scienza e la tecnica portino al progresso. Ma questo non deve indurre nell’uomo la pretesa di avanzare nella conoscenza, anzi, gli svela soltanto, e sempre meglio, i propri limiti e condizionamenti.



Prendiamo in esame uno dei primi lavori, il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi. Scopo dell’opera è cercare la verità. Poiché il mondo è pieno di errori, dice il giovane poeta, “prima cura dell’uomo deve essere quella di conoscere la verità”. Ora, se “una volta si venerava superstiziosamente tutto ciò venia dagli antichi,
ora si disprezza da molti senza distinzione tutto ciò che ad essi appartiene”. Entrambi gli atteggiamenti sono sbagliati, secondo Leopardi. Continua infatti il poeta “gli antichi non andarono esenti dagli errori, i più grossolani; ma (…) il volgo dei moderni non cede loro quasi in verun conto. Non pochi anzi dei pregiudizi che regnavano un tempo sono anche al presente in tutto il loro vigore”.



Ma un profondo solco tra la propria visione filosofico-poetica e il retaggio del passato Leopardi lo traccia. Come dice Paolo Zellini “Leopardi dai Greci non eredita quello che era stato il grande antidoto al male d’infinito, la teoria della misura e l’arte di imbrigliare l’illimitato in una serie di rapporti, logoi limitati. La matematica greca aveva anche questo scopo. L’aritmetica, la geometria e la ‘logistica’ (o scienza algoritmica del rapporto) erano servite, oltre che a fondare le scienze matematiche in Occidente, a definire una sorta di profilo astratto del comportamento ideale, un riferimento utile alla vita dei sentimenti e perfino, come ci dice Platone alla ‘conversione’ dell’anima, o alla salvezza della nostra vita. La ‘logistica’ aveva a che fare, diceva Archita, con la sofia e i canoni del logismos, dell’arte di calcolare rapporti, entravano regolarmente nei
‘Dialoghi’ platonici come nell’‘Etica Nicomachea’ di Aristotele a bilanciare la vita dei sentimenti, contribuendo a definire una sorta di ‘scienza della misura’ del piacere e del dolore, un percorso che servisse a non perdersi nei contrari. Né bisogna pensare che il ‘giusto mezzo’ teorizzato da Aristotele fosse solo una ‘media’ tra gli opposti. Il ‘mezzo’ come punto di eccellenza ideale dell’etica era per Aristotele un ‘culmine’ o un ‘estremo’
ed era una prerogativa delle anime ‘grandi’. Per Leopardi, insomma, la via della misura non è percorribile.



Prosegue Zellini: “Ne segue che la stessa matematica non può giocare il ruolo complessivo che le era stato affidato dai Greci. La matematica, che cerca una misura per il grande, l’illimitato e lo smisurato finisce per togliere l’unico aspetto poetico e dilettevole per l’anima, che consiste in quella vaghezza, immaginazione e illusione che accompagnano di solito l’esperienza dell’infinito”. E che rappresentano gli elementi costitutivi della poesia leopardiana.


In sintesi la matematica, la scienza, le scienze non sono affatto estranee a Leopardi, anzi, fanno parte del suo faticato e ricchissimo corredo culturale. E probabilmente, anche se rare sono le dichiarazioni dirette, questo retaggio influì assai fortemente anche sul letterato, anche sul poeta, portandolo a riflessioni, pensieri, elaborazioni, l’abbiamo sottolineato, paralleli a quelli degli scienziati. Abbiamo anche visto che rispetto a loro il poeta si sentiva altro: ragioni stilistiche (lo stile della scienza così poco elegante, così lontano d a qu ello po etico po ssono essere state una discriminante non trascurabile). Ma soprattutto altre erano le conclusioni cui la scienza (e anche la matematica, compresa quella antica) portava. Conclusioni totalmente antitetiche al sistema filosofico leopardiano e alla poetica del grande recanatese. C’è infatti un punto su cui, proprio là dove forse le due strade potrebbero intersecarsi, avviene la separazione definitiva: l’infinito. Infinito, giano bifronte nella poetica leopardiana, aspirazione costante ma disseminata di limiti. Desiderio e impossibilità di realizzarlo. Contro i mali d’infinito gli antichi avevano trovato una soluzione, la misura, il logos appunto grazie a cui l’uomo riusciva a sollevarsi sopra i mali dell’infinito stesso. Per Leopardi questa strada non è percorribile perché toglie all’anima immaginazione, vaghezza e illusione indispensabili nell’esperienza dell’infinito. Così al logos, alla misura, egli contrappone l’a-logon, il canto, la poesia.

martedì 10 agosto 2010

La Statistica al vertice della Matematica?

Per quello che so io è vero che oggi, anche in Italia, il percorso formativo matematica converge all'Analisi matematica, quale obiettivo privilegiato. In realtà questa è una tendenza fortemente rafforzata negli utlimi anni, per motivi che solo in parte penso d'aver capito.
Quello che non mi convince nel discorso di Arthur Benjamin è che kla statistica possa essere messa come vertice del percorso formativo matematico contemporaneo... La Statistica è importante  e il calcolo delle probabilità ancor di più, ma non vedo né l'una né l'altro un buon obiettivo per il percorso formativo in matematica, valido per tutti: tecnici, letterati, scientifici e professionali.

Fra l'altro non capisco come possa essere la Statistica la "matematica dell'era digitale" (io sono appassionato, ma poco approfondito, sostenitore dell'Analisi Non Standard, che in Italia non riesce a prendere piede...).
Se qualcuno vuole aiutarmi a capire, è il benvenuto!


LA GEOMETRIA ELLITTICA – modello di Riemann

Questa geometria si ottiene sostituendo al quinto postulato di Euclide il seguente : “Ogni retta  s  passante per il punto P incontra sempre...