giovedì 20 settembre 2012

LA SCIENZA GRECA NEL PERIODO ELLENISTICO



Il termine "ellenismo" fu coniato nell’Ottocento dallo storico tedesco Johann Gustav Droysen, per indicare quel periodo storico che va dalla morte di Alessandro Magno alla conquista romana dell’Egitto. La matrice di fondo del periodo, secondo Droysen, è l’integrarsi della cultura greca con quella orientale. In buona parte è una visione storica corretta, intesa tuttavia non come un mescolarsi di due culture diverse, ma soprattutto come diffusione della civiltà greca ben oltre i confini della Grecia e delle sue colonie, in particolare nelle aree orientali.
Il grande protagonista della diffusione della cultura greca fu Alessandro Magno. 


Figlio di Filippo il Macedone, alla morte di questi avvenuta nel 336 a.C., Alessandro iniziò una strepitosa campagna di conquista che lo portò, nel giro di pochi anni, a costituire un impero immenso, che comprendeva, oltre la penisola greca, l’Egitto, la fascia mediorientale della Palestina e della Fenicia, l’attuale Turchia, la Tracia (attuale Romania) e tutto il vastissimo impero persiano che andava dall’Armenia fino ai confini con l’India. Si apprestava a completare questo vasto impero con la conquista della penisola araba, ma improvvisamente morì, a soli 33 anni, nel 323 a.C. L’unitarietà del suo impero non sopravvisse alla sua morte, e si frantumò in tanti regni (definiti, appunto, ellenistici) poi progressivamente assorbiti dall’impero romano. Roma completò queste annessioni con la conquista dell’Egitto, avvenuta nel 31 a.C., e da questo momento non si parla più di arte e di cultura ellenistica ma di arte e di cultura romana, anche se, come in seguito vedremo, di fatto non vi fu alcuna soluzione di continuità: in pratica, soprattutto nel campo delle arti figurative, non vi fu alcun cambiamento stilistico, ma solo un cambio di nome, dato che, dal 31 a.C. in poi, tutto il mondo antico è ormai sotto la dominazione politica di Roma.
Secondo alcuni l'Ellenismo può estendersi fino ai primi secoli dopo Cristo, addirittura fino al 500 d. C. includendo in questo periodo anche la sua decadenza e la distruzione della biblioteca di Alessandria.


Nel periodo Ellenistico si formò una società multirazziale e cosmopolita di cui il greco (κοινή) fu la lingua comune suddivisa in potenti monarchie: le monarchie di Macedonia, d’Egitto, di Siria di Pergamo e della Battriana.

Grazie al sostegno dei sovrani di questi regni, in particolare dei Tolomei in Egitto, a cui si deve l’istituzione del Museo di Alessandria e le biblioteche che attirarono le persone più valide, ci fu una straordinaria fioritura della scienza ellenistica. Questa dottrina subì una scissione dal progetto politico e dai problemi sociali: nacque la figura dello scienziato di professione, dedito allo studio e alla ricerca. Nel Museo gli scienziati venivano ospitati e stipendiati senza dover neppure insegnare, in piena libertà di ricerca.

Lo scienziato, ivi isolato dalla politica e dalla società , perde il senso di qualunque applicazione pratica dei suoi studi a meno che non gli venga chiesto dal sovrano, deresponsabilizzandosi nei confronti degli esiti dei propri studi.
Le scienze in questo ambiente fissano i propri principi, diversificano i metodi, costruiscono i propri strumenti. In questo senso la struttura economica basata sul lavoro servile, la mancanza di un mercato di manufatti (e quindi l'uso di soli beni di consumo) e l'uso di guadagni solo per il lusso rendevano inutile l'applicazione della scienza a fini pratici e quindi la nascita della tecnologia. Allora sembra sia stato l'esigenza di migliorare l'efficienza bellica uno dei grandi incentivi all'incremento delle scienze e delle tecniche.
Non fu un caso, dunque, che i principali protagonisti della vita scientifica in epoca ellenistica non vennero dalla Grecia continentale, ma vissero principalmente in altre realtà. Come Euclide, ad esempio, che operò ad Alessandria, e come Archimede, che nacque a Siracusa, ma studiò a lungo ad Alessandria. Questa città divenne indubbiamente il vero centro scientifico del mondo ellenistico.


La filosofia continua ad essere radicata in Atene e si separa anche geograficamente dalla scienza, che assume la sede nel Museo e nella Biblioteca di Alessandria d'Egitto. Si possono citare come figure importanti, oltre ad Archimede ed Euclide, Eudosso di Cnido e Apollonio di Perge. Diofanto di Alessandria fu l'ultimo dei grandi matematici greco-ellenistici, ed è noto come il padre dell’algebra. Dopo di lui per circa un millennio e fino a Leonardo Fibonacci lo studio della matematica, almeno in Europa, attraversò un periodo di grave decadenza. Diofanto scrisse un trattato sui numeri poligonali e sulle frazioni, ma la sua opera principale è l'Arithmetica, trattato in tredici volumi dei quali soltanto sei sono giunti fino a noi. Egli scrisse un trattato sulle equazioni lineari indeterminate e perciò sono chiamate “equazioni diofantee”.


L'Archimede di Piero: manoscritto studiato e conservato da Piero della Francesca e poi nella città di Borgo Sansepolcro negli anni a cavallo fra XV e XVI secolo agli albori della rinascita della Scienza Occidentale. Recentemente ritrovato presso la Biblioteca Riccardiana di Firenze.


Il discredito che la cultura antica riservava a chi si dedicava alla costruzione di macchine è evidente nel giudizio di Plutarco sulle invenzioni di Archimede: “Archimede possedette tuttavia uno spirito così elevato, un’anima così profonda e un patrimonio così grande di cognizioni scientifiche che non volle lasciare per iscritto nulla su quelle cose, cui pure doveva dare un nome e la fama di una facoltà comprensiva non umana, ma pressoché divina. Persuaso che l’attività di uno che costruisce delle macchine, come di qualsiasi altra arte che si rivolge ad una utilità immediata, è ignobile e grossolana, rivolse le sue cure più ambiziose soltanto a studi la cui bellezza ed astrazione non sono contaminate da esigenze di ordine materiale.”
Tratto dal racconto dell’assedio di Siracusa nella Vita di Marcello.

Vi è tuttavia, una differenza fondamentale rispetto alla scienza moderna: mentre dal punto di vista teoretico è assimilabile alla scienza moderna invece dal punto di vista metodologico è priva del momento sperimentale. Anche per l’enorme prestigio culturale di Platone ed Aristotele, la logica e la deduzione formale furono ritenute più importanti dell’esperienza e dell’induzione.
Questa impostazione condusse a risultati straordinari nella matematica, geometria ed astronomia ma fu da ostacolo per lo sviluppo ad esempio della fisica, pur con la rilevante eccezione di Archimede. La comparsa e lo sviluppo di un metodo scientifico, più simile a quello considerato tale ai nostri giorni, potrebbe quindi essere considerato il merito principale dell'epoca ellenistica.

Sui miglioramenti tecnici e scientifici dell'età ellenistica influirono quindi diversi fattori. Uno di questi fu l'assorbimento nel modo greco di antichi saperi egiziani, babilonesi e persiani. La scoperta di una tale sapienza andrebbe retrodatata, ma il vero approfondimento avvenne in epoca ellenistica, quando apparvero uomini in grado non solo di comprendere il valore e l'importanza della matematica babilonese o della medicina egiziana, ma di sviluppare tutte le conoscenze raggiunte nel mondo unificato ed implementarle.


In Socrate ed Aristotele scienza e virtù erano inscindibili e senza l'una non era possibile l'altra. Nell'ellenismo si ha il compimento di questo iter del pensiero: la filosofia si interessa della virtù e si oppone alla scienza che concepisce come uno strumento. La filosofia diventa perciò ricerca della felicità individuale contro i turbamenti esterni.



BIBLIOGRAFIA
Mondo letterario greco” vol 3*
www.wikipedia.it

domenica 16 settembre 2012

Una rilettura: Il codice perduto di Archimede

Sto rileggendo (dopo qualche anno) un libro uscito nel 2007 e relativo alla riscoperta del manoscritto C di Archimede di Siracusa. Eccolo qua:

Reviel Netz e William Noel    
Il codice perduto di Archimede
Rizzoli 2007, pp. 424


Nella seconda lettura si trovano meglio molte indicazioni di sicuro interesse, che avevo in gran parte dimenticato. Sarà la nuova maturità dei 40 anni... Condivido quindi le considerazioni di una recensione che avevo all'epoca appuntato (tratta da Galileo: giornale di scienza, all'URL http://www.galileonet.it/articles/4c32e1dc5fc52b3adf0022dc) 

Una prima riflessione è sulla fortuna di avere accesso alle opere dell'antichità classica. Prima della nascita della stampa, infatti, l'unico modo per avere una copia di un testo era appunto farne una copia a manoo. Se poi aggiungiamo le distruzioni più o meno volute che nel corso dei secoli hanno falcidiato le biblioteche, arriviamo a capire facilmente come spesso le nostre conoscenze siano più che altro frutto del caso. Prendiamo ad esempio i lavori di Archimede. Nel 1311 tutta la conoscenza diretta che si aveva della sua opera era contenuta in due soli manoscritti, il codice A e il codice B, entrambi appartenenti al papa e databili intorno al decimo secolo. Del codice B si persero immediatamente le tracce, fortunatamente dopo che era stato ricopiato; il codice A svanì nel 1564. Solo nel diciannovesimo secolo si scoprì in un monastero ortodosso in Palestina un terzo codice, sotto forma di palinsesto, che conteneva alcune opere prima a noi sconosciute come il Metodo. Lo studioso danese John Ludwig Heiberg curò una versione, anche se lacunosa visto il pessimo stato di conservazione della pergamena, e anche questa fu una fortuna: il manoscritto sparì nuovamente, per riapparire nel 1997 a un'asta, in condizioni ancora peggiori e addirittura falsificato con le immagini degli evangelisti dipinte sopra alcuni fogli. 

“Il codice perduto di Archimede” è la storia degli sforzi di questi ultimi dieci anni per riuscire a leggere anche le parti del testo che Heiberg non poté vedere, perché coperte dalla rilegatura, e delle nuove scoperte che sono state fatte. Gli autori provengono da esperienze completamente diverse: William Noel è il curatore della sezione manoscritti del Walters Museum di Baltimora, dove il codice è custodito per conto del miliardario che l'ha acquistato, menter Reviel Netz è un israeliano, professore di lettere classiche alla Stanford University ed esperto di matematica greca classica letta - o forse occorrerebbe dire "desunta", vista la difficoltà di comprensione dei palinsesti - direttamente negli originali. I due si alternano a raccontare la storia antica e recente del manoscritto, così come tutte le ipotesi che si possono fare sulle conoscenze di Archimede, che sembrano essere maggiori di quanto si potesse credere ancora nel secolo scorso. 

È possibile che l'entusiasmo di Netz, che per esempio si dice convinto che il Siracusano sia stata la prima persona a fare matematica combinatoria avendo come unica fonte una quasi illeggibile prima pagina del trattato sullo Stomachion, sia esagerato. Però questo entusiasmo è contagioso, e non solo ci fa capire come la filologia possa essere un campo davvero appassionante, ma ci dà anche alcune informazioni totalmente inaspettate sul modo di pensare degli antichi greci. Per esempio, i diagrammi medievali che accompagnano i testi matematici sono fatti per raffigurare con la maggior precisione possibile le figure di cui si parla: ma il palinsesto ha figure esplicitamente "sbagliate", come i lati dei poligoni inscritti in una circonferenza che non sono segmenti, ma linee curvate verso l'interno. Questo non è il risultato di un'imperizia dell'amanuense; al contrario, i matematici greci cercavano proprio di fare in modo che non ci fosse nulla che fosse "chiaramente visibile", per evitare di fare delle ipotesi errate basandosi solamente sul disegno.

Ma il libro non parla solamente di matematica, c'è anche tanta tecnologi. Per riuscire a tirare fuori informazione da quel povero testo che stava andando a pezzi sono state impiegate tecniche di ogni tipo, dall'analisi spettrale a varie frequenze luminose e nell'ultravioletto per creare immagini a falsi colori fino ad arrivare alla spettrografia a raggi X che permette di scoprire le tracce del ferro contenuto nell'inchiostro usato dall'amanuense, e quindi ottenere un'immagine di quanto era stato coperto dalle miniature aggiunte nel ventesimo secolo: un po' come quando si scoprono le versioni dei quadri prima che il pittore ci dipingesse di nuovo sopra, con la differenza che la precisione richiesta per riuscire a visualizzare le minuscole lettere greche deve essere molto maggiore.


Insomma una cosa da leggere e rileggere...

venerdì 14 settembre 2012

Sono d'accordo con Odifreddi (per una volta)

Quello che segue è un post pubblicato il 28 agosto ultimo scorso da Piergiorgio Odifreddi sul sul blog - ospitato da Repubblica. 
Ecco il link: 
http://odifreddi.blogautore.repubblica.it/2012/08/28/perche-la-matematica/comment-page-1/

Come premessa devo precisare che a me Odifreddi piace poco in generale, pur essendo un buon divulgatore della mia disciplina, la matematica. In questo caso, però coglie il segno di un handicap culturale che il continente europeo paga rispetto al mondo anglosassone (e orientale): la scarsa diffusione dello studio delle matematiche nelle scuole di base e del secondo ciclo. In Italia, inoltre paghiamo lo scotto pesantissimo di una riforma Gentile che ha ispirato l'educazione per tutto il XX secolo e che tutt'ora fornisce la direttrice dei vari "riordini" scolastici. Quindi, per una volta, viva Odifreddi.


Perché la matematica?


Due settimane fa, l’inserto domenicale del New York Times ha pubblicato un articolo intitolato L’algebra è necessaria? A porsi la domanda non era ovviamente un matematico, o uno scienziato. Bensì, un politologo, preoccupato del fatto che ormai nelle scuole statunitensi la matematica sia diventata un ostacolo obbligatorio, che devono superare tutti coloro che poi vorranno iscriversi a qualunque tipo di corso di laurea all’università, scientifico o umanistico che sia.
“Pure i poeti o i filosofi devono studiare la matematica alle superiori”, si scandalizzava il povero politologo! E il suo argomento era che è giusto far sudare sulle equazioni o i polinomi gli studenti che se lo meritano, perché vogliono diventare ingegneri o fisici. Ma perché mai torturare gli altri, così sensibili, che vogliono invece scrivere versi o dedicarsi alla metafisica? Da noi, queste cose le dicevano Croce e Gentile un secolo fa, e il bel risultato che si ottiene a non far studiare la matematica agli umanisti lo si vede anzitutto dalle loro opere filosofiche, appunto.
Più in generale, non è certamente un caso che la filosofia analitica, che monopolizza il mondo anglosassone, sia così diversa da quella continentale, che domina nella vecchia Europa. Lo standard di rigore adottato dalla prima è infatti contrapposto allo stile letterario della seconda, e la matematica insegna anzitutto proprio quello standard. Questo è il primo motivo per studiarla: perché chi viene forgiato da una logica ferrea, nella quale un solo segno sbagliato può provocare disastri irreparabili, non si accontenterà più dei non sequitur di Heidegger o di Ratzinger, e rimarrà felicemente sordo alle sirene della metafisica filosofica o teologica.
Naturalmente, la ragione ha una sua bellezza. Dunque, il secondo motivo per studiare la matematica è educare l’occhio o l’orecchio della mente, per essere in grado di vederla o sentirla, questa bellezza. In fondo, nessuno si chiede perché si creano e si fruiscono l’arte o la musica: semplicemente, sono espressioni dello spirito umano, che soddisfano ed elevano chi le intende. Ma pochi sanno che c’è tanta bellezza nei progetti di Fidia, nelle fughe di Bach o nei quadri di Kandinsky, quanta ce n’è nei teoremi di Pitagora, di Newton e di Hilbert.
Gli esempi non sono scelti a caso. Perché nell’arte e nella musica ci sono, e ci sono sempre state, correnti razionaliste che parlano lo stesso linguaggio della matematica. E capire e apprezzare i loro prodotti richiede lo stesso grado di istruzione, e lo stesso livello di addestramento, che servono per capire e apprezzare i teoremi e le dimostrazioni. In entrambi i casi, all’insegna del motto che, certe cose, “intender non le può chi non le prova”.
E’ ovvio che certa arte e certa musica, allo stesso modo della matematica, richiedono uno sforzo superiore di quello sufficiente per guardare una pubblicità, orecchiare una canzonetta o leggere un romanzetto. Anche scalare l’Himalaya o le Alpi è più impervio che andare a passeggio, ma solo così si possono conquistare le vette, delle montagne o della cultura. E questo è il terzo motivo per studiare la matematica: perché lo sforzo di concentrazione e lo studio assiduo che sono necessari per fruirla, vengono ampiamente ricompensati dalle altezze intellettuali a cui elevano coloro che li praticano.
Infine, il quarto motivo per studiare la matematica è che serve. Senza le derivate e gli integrali, non avremmo la tecnologia meccanica ed elettromagnetica, dalle automobili ai telefoni. Senza la logica matematica, non ci sarebbero i computer. Senza la teoria dei numeri, i nostri pin sarebbero insicuri. Senza il calcolo tensoriale, i navigatori satellitari non funzionerebbero. Addirittura, senza la geometria non sarebbe stato scoperto il pallone da calcio.
Ma senza tutte queste cose, non saremmo comunque meno uomini, o uomini peggiori. Senza la ragione, la bellezza e la cultura, invece, sì. E’ per questo che la giustificazione utilitaristica, che di solito viene invocata per prima, qui appare non solo come last, ma anche come least: cioè, per ultima, anche in ordine di importanza.


LA GEOMETRIA ELLITTICA – modello di Riemann

Questa geometria si ottiene sostituendo al quinto postulato di Euclide il seguente : “Ogni retta  s  passante per il punto P incontra sempre...