lunedì 19 agosto 2013

domenica 18 agosto 2013

Matematica e società: il Liber abaci di Leonardo Fibonacci e la cultura dell'abaco.


Il 1202 è, per l’Occidente latino, l’anno di una rivoluzione culturale di enorme portata. Leonardo Fibonacci pubblica un suo ponderoso trattato, il Liber abaci, destinato a influire profondamente sulla società del suo tempo. Come osserva Enrico Giusti (Matematica e commercio nel Liber Abaci in Un ponte sul Mediterraneo, p. 93):
Quando il Liber Abaci vide la luce, ottocento anni or sono, la matematica nell’Occidente cristiano era praticamente inesistente: se si eccettuano le traduzioni dall’arabo che alla fine del XII secolo un gruppo di studiosi andava conducendo nella Spagna mussulmana, traduzioni che riguardavano soprattutto i grandi
classici (Euclide in primo luogo) dell’antichità greca, ben poco circolava in Europa all’inizio del Duecento. Soprattutto ben poco di comparabile per mole e per profondità a quanto Leonardo Fibonacci avrebbe reso pubblico nel 1202.

Il trattato è molto vasto (nell’edizione di Baldassarre Boncompagni, quasi 500 pagine in-quarto grande) e può essere visto come diviso in quattro parti: la prima (i primi sette capitoli) insegna i fondamenti dell’aritmetica (le cifre “indiane”, la notazione posizionale, gli algoritmi di calcolo con numeri interi e frazioni). A questa seguono i capitoli di “matematica per mercanti”: cambi di monete, pesi e misure, acquisto e vendita di merci, baratti, società (capitoli 8–11). La terza parte contiene problemi “dilettevoli e curiosi”: fra questi il famoso problema dei conigli, che dà luogo alla famosa successione
di Fibonacci (1, 2, 3, 5, 8, 13 . . . : capitolo 12). La quarta parte contiene tecniche e problemi più complessi e astratti: dalla regola della “doppia falsa posizione” (cap. 13) a estrazioni di radici quadrate e cubiche (cap.14); dalla teoria delle proporzioni geometriche all’algebra (cap. 15).

Tutto qui? Un’opera capitale nella storia del pensiero umano sarebbe un volumone in cui sostanzialmente si insegna solo a fare le quattro operazioni? E' è roba da elementari. Delle nostre scuole elementari.
E proprio il fatto che questa matematica si sia radicata a tal punto nella nostra cultura da potere e dovere essere insegnata ai bambini insieme con l’alfabeto è la prova che attraverso il Liber abaci si veicol`o una rivoluzione culturale.

Per la prima volta, dopo la sua invenzione da parte dei Greci nel V secolo a.C., la matematica si compenetra nella società. Nel 1202 nasce una società che pone alla base delle sue transazioni un linguaggio, un metodo e un approccio matematici.

Lo svilupparsi di reti commerciali sempre più vaste, l’espandersi delle dimensioni delle imprese e le conseguenti esigenze di adeguare i sistemi di contabilità, fecero sì che le diffidenze iniziali si andassero rilassando nel corso del Duecento: Fibonacci stesso nel 1241 fu incaricato dal Comune di Pisa di tenere corsi per i suoi funzionari. Nasce così la figura del “maestro d’abaco”; prende piede un’istituzione fondamentale per la storia d’Europa: la “scuola d’abaco”. La sua diffusione, ancora esitante nel XIII secolo, diventa impetuosa nel corso del Trecento e del Quattrocento. Nella sola Firenze, tra l’ultimo ventennio del Duecento e il primo quarantennio del Cinquecento operarono a Firenze una settantina di abacisti, quasi tutti maestri d’abaco, e si ha notizia di venti scuole d’abaco. Verso la fine del Quattrocento, almeno il 25% dei ragazzi in qualche modo “scolarizzati” frequentava questo tipo di scuole; nella Venezia del Cinquecento la percentuale sale addirittura al 40%.

Alla scuola d’abaco si entrava circa all’età di dieci anni, dopo aver imparato a leggere e a scrivere a quella di grammatica; il corso durava circa due anni. Le scuole d’abaco erano ovviamente frequentate da coloro che volevano dedicarsi alla mercatura ma anche da chi intendeva entrare nelle botteghe artigiane per diventare architetto, pittore o scultore. Erano per la maggior parte istituite e sovvenzionate dai Comuni, ma molte (a Firenze, per esempio) erano private. è in queste scuole che si formarono alcuni dei grandi nomi del nostro Rinascimento: Piero della Francesca, Michelangelo, Machiavelli, Leonardo (per non citare che i più famosi fra quelli per cui esiste una documentazione certa) provengono da questo ambiente culturale e alcuni di essi, come Piero e Leonardo, lo alimentarono attivamente.
Fra il XIII e il XVI secolo la scuola d’abaco sarà la scuola di quello strato culturale intermedio che è al tempo stesso il produttore e il fruitore principale della matematica abachistica.
È lo strato culturale cui appartengono coloro che non sono illetterati, ma nemmeno ambiscono alle professioni liberali — medicina, diritto, teologia. Sostanzialmente estranei alla cultura universitaria legata inscindibilmente al latino, sviluppano una cultura parallela, che potrebbe chiamarsi cultura dell’abaco, dal nome delle scuole in cui si formano i mercanti, gli artisti, i tecnici, gli uomini d’arme, gli stessi nobili.

Che matematica vi si insegnava? Essenzialmente gli argomenti che abbiamo riassunto descrivendo il Liber Abaci, ma attraverso lo strumento del “trattato” o del “libro d’abaco”.
Warren van Egmond ne ha recensito un gran numero, e il Centro Studi della Matematica Medioevale dell’Università di Siena ne ha pubblicato diversi; se ne conoscono attualmente circa trecento. Il libro d’abaco diventa una sorta di prontuario di “esercizi” che serve al maestro per insegnare ai suoi scolari. La matematica della cultura dell’abaco prende infatti una strada molto diversa da quella della matematica classica e anche (sia pur in misura minore, date le sue origini) da quella araba. La struttura assiomatico-deduttiva scompare quasi completamente, l’insegnamento avviene per esposizione ripetuta a casi esemplari: il libro d’abaco ne costituisce appunto una riserva che il maestro potrà—avendone le capacità —ampliare. Lo scolaro, esercizio dopo esercizio, arriverà a poter trattare, oltre all’aritmetica e ai suoi algoritmi quei problemi che è destinato a incontrare quotidianamente nella sua vita professionale: interessi, società, compagnie, baratti, cambi di monete e di misure, problemi di geometria pratica (misure di campi, di capacità, di distanze).


La cultura dell’abaco si dota così di una sua matematica: una matematica nuova per una società nuova, che sembra aver dimenticato il modello greco. Sembrerebbe, da quanto siamo venuti dicendo, una perdita secca: non a caso, come discuteremo fra breve, il Medioevo non riuscirà a cogliere e ad apprezzare di Archimede che gli aspetti che più si prestavano a essere trasformati in regole pratiche: la misura del cerchio e quella della sfera. Eppure è proprio negli ambienti delle scuole d’abaco che si sviluppano i primi passi in avanti rispetto alle conoscenze classiche: tanto per fare due esempi la nascita della prospettiva teorica e la nuova teoria delle equazioni si sviluppano proprio attraverso il lavoro fatto nelle scuole d'abaco.

[testo tratto a P.D: Napolitani, L'Italia del Rinascimento, 2007]

giovedì 25 luglio 2013

Entanglement

Legame di natura fondamentale esistente fra particelle costituenti un sistema quantistico (dall’inglese to entangle «impigliare, intricare»). È anche detto, talvolta, correlazione quantistica.

In base a esso, lo stato quantico di ogni costituente il sistema dipende istantaneamente dallo stato degli altri costituenti. Tale legame, implicito nella funzione d’onda del sistema, si mantiene anche quando le particelle sono a distanze molto grandi, e ha conseguenze sorprendenti e non intuitive, sperimentalmente verificate. Infatti, è una conseguenza diretta dei principi della meccanica quantistica che la misurazione (intesa in senso quantistico) delle proprietà di una particella influenzi anche quelle dell’altra.


Sull’Entanglement furono congegnati famosi esperimenti concettuali, come il paradosso EPR (dalle iniziali di Einstein, Podolsky e Rosen) per criticare i fondamenti della meccanica quantistica che sono alla base del fenomeno dell’entanglement. Questo è oggetto di importanti indagini sia teoriche sia applicative relative al teletrasporto, alla crittografia quantistica e alla possibilità di realizzare calcolatori quantistici.

Fonte: enciclopedia Treccani (http://www.treccani.it/enciclopedia/entanglement/)

domenica 21 luglio 2013

Una mostra a Roma per Archimede. Da non perdere!


Bilance, apribottiglie, forbici, mollette del bucato e macchine da cucire: sono tutti oggetti di uso comune, frutto dell’ingegno di uno dei più grandi scienziati della storia. È Archimede di Siracusa, vissuto nel III secolo a.C. e presentato oggi per la prima volta nella mostra “Archimede. Arte e scienza dell’invenzione”. L’esposizione, allestita ai Musei Capitolini di Roma dal 31 maggio 2013 al 12 gennaio 2014, descrive la figura del genio attraverso un percorso storico-scientifico ricco di elementi multimediali, modelli e filmati 3D, giochi interattivi e reperti archeologici originali.

Chi era Archimede

In una perfetta sintesi tra teoria e pratica, Archimede è lo scienziato della matematica astratta e delle invenzioni: è astronomo, fisico, ingegnere e inventore. È anche un “uomo politico” che difende la patria greca fino al momento della conquista romana. 

Ma chi è veramente Archimede? Di lui ci viene in mente il profilo del personaggio Disney, l’inventore geniale e strampalato che realizza i macchinari più ingegnosi e moderni. Nell’opera di Plutarco si rintracciano diversi aneddoti sulla vita dello scienziato, riportati all’interno della mostra. Ad esempio, una volta Archimede, mentre faceva il bagno, uscì nudo dall’acqua esclamando il famoso “Héureka!” (“Ho trovato!”): aveva intuito il principio che da lui prende il nome, in base al quale “un corpo immerso in un fluido riceve una spinta dal basso verso l’alto pari al peso del volume di fluido spostato”. Il suo interesse verso l’idrostatica nasceva dalla complessa richiesta del sovrano Gerone II, che desiderava sapere se una sua corona fosse stata realizzata in oro oppure no.

Un altro noto aneddoto narra che durante la seconda guerra punica Archimede, rifiutandosi di lasciare a metà un problema che stava risolvendo, venne ucciso da un soldato romano. Sì perché “a quei tempi valeva il nome, cioè la parola, e non la faccia”, spiega Umberto Broccoli, sovrintendente capitolino ai beni culturali. “Se avesse detto ‘sono Archimede’ lo avrebbero rispettato”.

Tra le invenzioni e le opere ingegneristiche si annoverano le leve - di cui alcune in grado di spostare le navi - gli orologi ad acqua, la vite idraulica, le macchine da guerra e glispecchi ustori. In particolare, Archimede teorizza il principio della leva, su cui si basano le bilance e le stadere, tuttora utilizzate nei mercati: secondo tale principio data una bilancia, composta da un segmento e da un fulcro, e date due forze applicate ciascuna ad un lato del segmento, il braccio e la forza su di esso applicata sono inversamente proporzionali. Con questo principio, utilizzando leve vantaggiose, gli fu possibile sollevare carichi molto pesanti con piccole forze d’applicazione. Negli studi teorici di Archimede, inoltre, si ricordano gli esperimenti geometrici, come la quadratura della parabola, gli studi astronomici e il planetario meccanico, gli studi fisici sull’idrostatica e sulla pneumatica.

La mostra

Due i filoni principali dell'esposizione. Attraverso il primo è possibile ammirare, e in alcuni casi anche azionare, modelli funzionanti di congegni e dispositivi, applicazioni multimediali e filmati 3D che consentono quasi un vero e proprio viaggio nel tempo e nello spazio. Ad esempio, è possibile sperimentare direttamente il principio della leva, sedendosi sui due lati di una lunga panca attaccata al suolo e incernierata in un punto per mezzo di un fulcro.

Il secondo filone riporta i trattati di Archimede, che raccontano gli aspetti della sua fortuna fino alla riscoperta dei suoi testi da parte degli Umanisti e durante la Rivoluzione Scientifica. Non mancano, all’interno dell’esposizione, numerosi ritrovamenti archeologici della città di Siracusa del III secolo a.C., tra cui statue, dipinti, mosaici e strumenti scientifici originali. In particolare, si possono osservare un modello di orologio solare diffuso all’epoca, i resti delle navi romane e delle armi e un modello di vasca da bagno in terracotta, molto simile alla vasca cui si lega il celebre episodio di Archimede.

In otto sezioni da visitare, per un totale di 150 opere originali ed oltre 20 modelli e video, il percorso storico comprende Roma, il Mediterraneo, l’Islam e l’Occidente. “In ogni angolo del mondo c’è una tradizione di studi legata a questo grande maestro”, sottolinea Paolo Galluzzi, direttore del Museo Galileo, Istituto e Museo di Storia della Scienza di Firenze.“E la mostra è un atto dovuto, perché ad Archimede non ne è mai stata dedicata una”.
 
Ulteriori informazioni sul sito dedicato alla mostra

domenica 28 aprile 2013

Umanesimo e pedagogia: qualche idea.



È difficile tracciare un quadro generale e complessivo dell'idea pedagogica affermatasi in età umanistica e centrata sulla riscoperta dell'individualità e della creatività personale, che è un tratto culturale distintivo di questo periodo. Occorre parlare di una pluralità di voci e di modelli, che nel loro insieme rendono conto della ricchezza del movimento culturale di cui sono espressione.
Coluccio Salutati (1331-1406) è considerato il fondatore del movimento umanistico in Italia. L'importanza storica della sua opera risiede soprattutto nel contributo all'affermazione della cultura classica, anche se con giustificazioni per molti versi ancora tipiche del pensiero medievale. Salutati ritenne, infatti, che lo studio delle humanae litterae sia fondamentale nell'educazione di una persona da un lato perché utile alla comprensione delle Sacre Scritture, dall'altro, e qui con un pensiero più prettamente umanistico, perché vedeva una forte continuità tra i valori morali cristiani e classici (virtus latina e paideia greca).
L'opera che si può considerare il primo trattato organico di educazione in età umanistica e il De ingenius et liberalibus studiis adulescentiae di Pier Paolo Vergerio (1370-1444). In essa sono descritte le caratteristiche fondamentali della formazione del principe, sotto i due aspetti dell'uomo di governo e del guerriero. Nella formazione del principe sono fondamentali gli studi liberali, intesi nel senso degli studi che si convengono a un uomo libero, tramite i quali si coltivano la virtù e la sapienza e si raggiungono gloria e onore. Gli studi liberali non hanno più valore solo in funzione dell'educazione religiosa, bensì hanno un valore formativo intrinseco, nell'ambito di un'educazione sempre più incentrata sull'uomo. Tramite essi l'uomo di governo deve sviluppare una propria autonomia di giudizio all'interno della corte ed essere sempre disponibile all'ascolto della verità. Accanto all'educazione liberale il principe è chiamato altresì a una severaeducazione fisica, secondo l'esempio di Sparta, per prepararsi ai disagi della vita militare e abituarsi al disprezzo delle difficoltà. Vergerio, oltre a fissare il curriculum degli studi, in cui alla filosofia, alla storia e alla retorica si accostano la geometria, l'astronomia e il diritto, tratta anche problemi psico-didattici, raccomandando il rispetto dell'indole e del temperamento dei singoli alunni e insistendo sul criterio della gradualità nell'insegnamento delle varie discipline, due idee comuni a tutti gli umanisti.
Con Maffeo Vegio (1406-1448) vengono riprese le idee di Salutati, ma in un contesto più prettamente umanistico. Egli considera come soggetto educativo privilegiato non più il cristiano dotto come Salutati, o il principe come Vergerio, bensì il cittadino. La sua idea educativa mira alla formazione di un uomo con l'apporto equilibrato di elementi umanistici (ricavati da Cicerone, Virgilio, Orazio, Platone) e cristiani (fondamentale la lezione di sant'Agostino, che si nota soprattutto in una spinta più verso l'interiorità che verso l'attività esterna). Il perno dell'educazione è per Vegio la verecondia, concetto dai vari risvolti, ma che essenzialmente vuol dire compostezza, autocontrollo interiore e legge morale di rispetto verso se stessi e gli altri. Anche Vegio non si occupa solo del curriculum degli studi, ma affronta problemi di metodo. In particolare si discosta da Vergerio nell'affermare che, proprio in virtù del rispetto delle attitudini dei singoli soggetti, devono essere consentiti e incoraggiati non solo gli studi liberali ma anche l'avviamento al mondo degli affari (attività commerciale, agricola, ecc.). Altro tratto distintivo dell'ideale formativo di Vegio è ilfavorire l'educazione pubblica rispetto a quella privata ai fini di una migliore e più solida formazione sociale.
Ideali già tipicamente rinascimentali si trovano nel pensiero di Leon Battista Alberti (1404-1472). Nel proemio del suo trattato in volgare Della famiglia appare la figura di un uomo nuovo, che confidando nella propria “virtù”, nel proprio lavoro e nella propria creatività riesce a essere completamente artefice del proprio destino. Dal punto di vista pedagogico Alberti dà molto valore al lavoro, all'attività e all'esercizio, sia in ambito individuale sia in ambito sociale. La sede privilegiata in cui attuare il processo educativo è, secondo Alberti, la famiglia, non solo in forza del modello educativo del padre di famiglia ma degli aspetti complessivi della vita in comune. I suggerimenti didattici di Alberti non si discostano da quelli tipici del suo tempo sopra accennati; in più egli sottolinea con forza l'importanza di una formazione equilibrata in cui l'esercizio fisico è accostato allo studio intellettuale, nell'ottica, tipicamente rinascimentale, di uno sviluppo integrale della personalità.
Gli ideali pedagogici umanistici, oltre alle enunciazioni teoriche, trovano espressione concreta in alcunescuole, tra le quali sono esemplari quella di Guarino Veronese (1374-1460) e quella di Vittorino da Feltre(1378-1447). Anche se in entrambe la base educativa è costituita dallo studio dei classici greci e latini, la scuola di Guarino è orientata professionalmente alla formazione di insegnanti e ecclesiastici, e quindi più incentrata su uno studio filologico, mentre quella di Vittorino ha intenti formativi più ampi e da essa usciranno, infatti, uomini di stato e d'arme, magistrati e teologi.
A Guarino si deve l'aver approntato un piano di studi articolato in più corsi e un metodo di studio che servirà anche nei secoli successivi da modello negli studi classici. La sua formazione insiste certamente molto sugli aspetti filologici, ma è anche attenta al pensiero e ai valori morali espressi da ciascun autore.
La scuola di Vittorino promuove una formazione più ad ampio spettro, con una forte impronta morale come tratto di fondo. Da questa scuola sono usciti insigni personaggi dell'epoca, come i due figli del marchese Gian Francesco Gonzaga, che si segnaleranno per le doti di rettitudine e buongoverno, Federico da Montefeltro, che trasformò Urbino in una delle città più splendide del periodo, Cecilia Gonzaga e Barbara da Brandeburgo. Anche in questo caso il fondamento dell'educazione è fornito dallo studio degli autori classici, ma, a differenza che nella scuola di Guarino, vengono accentuati i momenti etico-religiosi, si recuperano le arti del trivio e del quadrivio e si allargano le attività educative per comprendere anche l'educazione fisica e il gioco.

Fonte: http://www.sapere.it

martedì 26 marzo 2013

La quadratura del cerchio e la nascita del sonetto nel Medioevo

Riporto - con estrema curiosità - un articolo "pescato" in rete. 
Si tratta di un lavoro di ricerca svolto dalla classe I del Liceo Scientifico P.M. Vermigli, Ahmad Danilo, Di Gregorio Maria, Ribeiro Joana, Rizzo Antonio, Rosanò Jonny, Romanelli Tommaso, Semere Manuela con la guida della prof.ssa Maria Cristina Pizzichini. Non sono in grado di dire l'anno, ma si tratta del Liceo Vermigli di Zurigo.



Introduzione
I quesiti che hanno turbato maggiormente i sonni degli uomini medievali sono stati quello della quadratura del cerchio e quello della definizione della proporzione aurea, al punto da esserne coinvolti a livello psicologico. Il grande matematico Leonardo Fibonacci, alla corte di Federico II, se ne occupò in maniera assidua. 
Nella quadratura del cerchio si presentano i numeri 11 e 14. Ambedue i numeri sono notevoli nel sonetto, infatti esso è composto da 14 versi ognuno di 11 sillabe. Ma perché sempre e soltanto versi di undici sillabe? Perché sempre e soltanto quattordici versi? 
Lo scopriremo insieme in questo nostro percorso. Andremo a ricercare la risoluzione al problema della quadratura del cerchio, ciò che molti hanno tentato di fare, a partire da Archimede e anche ora prima dalla formula di Ahmes. 

Ci occuperemo anche della magia di questo numero undici e del condizionamento che ha avuto sulle popolazioni medievali, e… siccome siamo in Svizzera vi racconteremo una leggenda della città di Solothurn (Soletta)


La quadratura del cerchio
Questo problema relativo alla quadratura del cerchio ha una storia talmente lunga che non basterebbe un piccolo e semplice lavoro come il nostro per essere descritto.
Anche Dante ne parla nel “Paradiso” ( Divina Commedia III. 3). 
Il problema consiste nel trovare un quadrato di area uguale a quella di un cerchio, ma ciò soltanto nel XIX secolo è stato considerato impossibile da risolvere. Così la ricerca puramente geometrica della soluzione è stata sostituita da una ricerca della natura del rapporto fra l’area e il quadrato del cerchio, cioè sulla natura del numero Π (pigreco).
Possiamo enunciare in termini moderni il problema: affinché un quadrato possa avere la stessa area di un cerchio di raggio r ( e dunque di area Π r ² ) dovrebbe avere per lato la radice quadrata di Π r ², cioè r √Π. La figura metrico-geometrica del cerchio del sonetto, mette in luce una serie di concordanze perfette, osservabili fra le misure del sonetto e le misure del cerchio definito dai valori d=14 q=11. 
Le concordanze in questione riguardano le misure seguenti:



14x11
7x22
(4x22)+(2x33)

I valori 14 e 11 rappresentano:
- le misure metriche basilari della forma poetica che vengono definite da 14x11 e confermate da più di 700 anni di tradizione letteraria;

- le misure di uno dei tre modelli di disposizione grafica del sonetto, il tipo A, secondo il quale i 14 endecasillabi sono disposti l’uno sotto l’altro in una sequenza di 14 versi;
- l’intera geometria del Medioevo risolve il problema della misurazione del cerchio utilizzando i valori 11 e 14 come strumenti di calcolo;

- c’è una corrispondenza numerica strutturale del sonetto;
- la relazione non prova ancora niente per quel che riguarda la concreta corrispondenza fra il cerchio e la forma poetica, però si può dedurre sia stato esso ad ispirarlo.
Nel Medioevo il cerchio era un’immagine geometrica della Creazione. Infatti, lo notiamo nell’iconografia medievale dove vi è il Creatore come architetto.
Ad ispirare la celeberrima struttura del sonetto, si pensa che fu, per l’appunto, l’attività di Fibonacci in concordanza con le Scuole Siciliane alla corte di Federico II . Inoltre, nel pensiero medievale la figura circolare rivela grande importanza come chiave estetica, cosmologica e filosofica.
Data la relazione fra il cerchio d=14 e il modello metrico del sonetto, vi è il termine Sonettkreis (cerchio del sonetto).
Raccogliamo nella seguente tabella le equivalenze numeriche osservabili fra il sonetto e il cerchio sulla base delle misure (14x11) e (7x22):



Uno dei sonetti che maggiormente ci ha ispirato è quello di Pieraccio Tedaldi (ca. 1285-1350)

Qualunque vòl fare un sonetto
e non fusse di ciò bene avvisato,
s‘e‘ vuol esser di questo ammaestrato
apra gli orecchi suoi e lo `ntelletto

Aver vuol quattro piè l‘esser diretto,
e con dua mute, et essere ordinato,
et in parte quartodici appuntato,
e di buona rettorica corretto.

Undici silbe ciascun vuole punto
e le rime perfette vuole avere
e con gentil vocabuli congiunto;

dir bene alla proposta il suo dovere:
e se chi dice sarà d‘amor punto,
dirà più efficace il suo parere.

Undici, il santo numero di Soletta
Come divenne l’undici il numero di Soletta?
C’era una volta un piccolo, solitario, triste paesino di nome Soletta (Solothurn).
Non c’era luce, era completamente buio.
Ma la cosa peggiore è che non c’erano bambini.
Per questo motivo era poco vivace.
Non sapevano cosa volesse dire giocare e non sapevano cosa fosse il divertimento, tutti erano seri e nessuno di loro sapeva cosa volesse dire ridere.
Un giorno, gli abitanti del mondo degli elfi videro in quale situazione si trovava Soletta.
Furono molto scioccati da questa visione, perché il mondo degli elfi era esattamente l’opposto di Soletta.
Vennero allora mandati undici elfi travestiti da bambini dal loro signore. Lungo la strada gli elfi si diedero un nome: “Undici, Divertimento, Gioco, Risata, Felicità, Amore, Collaborazione, Allegria, Morbidezza, Chiarezza e Apertura”.
Gli undici bambini videro già da lontano il villaggio. Fuori non c’era nessuno, era completamente vuoto.
Appena entrarono nel paesino, esso si illuminò.
Quando gli abitanti del villaggio videro questo, corsero fuori. Quando videro i bambini si ricordarono il significato del divertimento avuto.
Celebrarono una festa per gli undici bambini e gli fecero molte domande, per esempio: “Da dove venite?” I bambini risposero: “Veniamo da un mondo in cui i bambini non diventano mai grandi. Questo mondo è pieno di divertimento e siamo venuti qua, per regalarvi undici anni di divertimento e risate!”.
Quando gli abitanti udirono ciò furono doppiamente felici.
Gli anni passarono e la gente divenne più felice.
Le donne incominciarono a procreare.
All’inizio, la gente era triste per il fatto che gli elfi se ne erano andati; ma furono comunque molto felici perché in paese c’erano molti bambini e quindi da un paesino divenne una città.
E poiché fu tutto merito degli elfi, costruirono come ricordo 11 fontane, 11 scale e così via! Per questo il simbolo di Soletta è il numero undici.

Bibliografia
Dizionario di Matematica” di Stella Baruk Zanichelli;
Nascita del Sonetto di Wilhelm Pötters Longo Editore Ravenna;
Leggenda del numero 11 di Irem Bilem dal libro “Leben am Jurasüdf“uss”





domenica 3 marzo 2013

JACOPO DA CREMONA : MATEMATICHE NEL RINASCIMENTO


Nella vicenda culturale e professionale di Jacopo , successore di Vittorino da Feltre , e traduttore dal greco inlatino delle opere di Archimede , sembrano compenetrarsi in modo esemplare la dimensione letteraria e quella scientifica dell'Umanesimo .


Quando nel 1544 la versione latina delle opere di Archimede fu stampata a Basilea insieme all'" editio princeps " in greco , Jacopo era già scomparso da un secolo . Che cosa indusse Thomas Gechauff , detto Venatorius , editore di questa fondamentale raccolta archimedea , a scegliere la versione latina dei
testi del matematico siracusano curata dall'allievo e successore di Vittorino da Feltre ?
Quando poi il matematico Cristoforo Clavio , nel 1599 , redigendo per la Ratio Studiorum dei Collegi gesuiti , il programma di insegnamento delle scienze matematiche , introdusse lo studio delle opere di Archimede , l'edizione di Basilea aveva già avuto vasta circolazione e lettori illustri . Quale fu , allora , il reale contributo dell'umanista Jacopo all'insegnamento delle scienze matematiche nel XV e nel XVI secolo e quale il suo ruolo nella rinascita archimedea che precedette e accompagnò la rivoluzione scientifica ?(1) Forse per rispondere ci si dovrà chiedere quale correlazione vi sia stata tra la sua esperienza didattica alla Ca' Giocosa di Mantova e il suo paziente lavoro di filologo e traduttore di opere scientifiche dal greco al latino . "Non è infatti un caso - scrive al riguardo Cesare Vasoli - che dalla scuola umanistica uscissero anche medici , uomini di scienza e traduttori di testi essenziali della scienza antica , come Jacopo di S. Cassiano che fu uno degli autori della rinnovata fortuna di Archimede " .(2) Nell'esperienza particolare di Jacopo , l'interesse personale per lo studio delle lingue greche e latine si coniugò con le ricerche in campo matematico e con una diretta esperienza di insegnamento . D'altro canto la storiografia delle scienze  matematiche fornirebbe oggi un quadro incompleto e darebbe una interpretazione deformata della valenza culturale della scienza se non considerasse anche le connessioni intercorse in ogni epoca storica tra la matematica e gli altri ambiti disciplinari ed esperenziali . Diviene allora importante , per poter cogliere l'articolazione interna delle diverse discipline matematiche e il loro trasformarsi sino a costituire modello di riferimento per ogni forma di conoscenza , analizzarne i processi fondamentali di insegnamento e apprendimento nel corso della storia (3). Nella formazione personale di Jacopo , l'umanesimo pedagogico del " contubernium " fece da guida agli interessi filologici e ai successivi studi nel campo delle scienze matematiche .


Jacopo allievo e successore di Vittorino da Feltre  
Alcuni elementi biografici , relativi alla formazione giovanile di Jacopo e alla sua successiva esperienza di docente , appaiono particolarmente interessanti .
Egli ,compiuti gli studi giovanili a Cremona , divenne , come conferma lo storico della scienza G. Sarton , canonico regolare di Sant'Agostino (4). Nel XV secolo , a Cremona , come in altri centri dell'umanesimo italiano , convivevano nell'ambito matematico due distinte tradizioni : una " cultura matematica dotta " , coltivata nell'insegnamento universitario e una " cultura matematica pratico-operativa " insegnata nelle scuole d'abaco attraverso i manuali in volgare . Ne è esempio , fra tutti , l'opera del cremonese Leonardo Antoni , autore di una " Pratica geometriae o Artis metrice practicae compilatio " , che fu docente a Bologna sin dal 1405 - 1406 . Il livello notevole raggiunto dagli studi dell'Antoni è testimoniato da un passo tratto dal Codice Atlantico [f. 247 ra] in cui Leonardo da Vinci afferma : " Tolli l'opere di Leonardo Chermonese " .
E' molto significativo che già nei manoscritti l'opera di Leonardo Antoni compaia sia in latino che in volgare . Nel trattato dell'Antoni si trova , tradotta in volgare e seguita da un esempio numerico di applicazione della formula , la regola di Erone per il calcolo dell'area di un triangolo in funzione dei suoi lati . L'uso di tale regola , presente nell'opera della tradizione araba dei Banu-Musa e nota col titolo " Verba filiorum " , tradotta in latino da Gerardo da Cremona ( sec. XII ) , segnala che il matematico cremonese del XV secolo era a conoscenza delle ricerche geometriche archimedee della tradizione greco-araba . Il lavoro di ricerca e insegnamento dei matematici del Quattrocento , come Leonardo Antoni ,a cui anche Jacopo deve la propria iniziale formazione scientifica , si sviluppò in pieno Umanesimo . Essi così alternarono la riscoperta dei classici con i tentativi , sempre più frequenti , di dare alle loro opere una veste manualistica che ne consentisse da un lato la più vasta circolazione e , dall'altro , finalizzasse i loro testi direttamente all'insegnamento . E' infatti chiaramente evidente un lento ma significativo e parallelo procedere tra la traduzione e la diffusione delle opere matematiche della tradizione greco-araba e l'affinamento della prassi didattica nella cultura occidentale come documenta il Beaujouan (5) .
Contemporaneamente , si andavano diffondendo le scuole d'abaco e i testi della matematica abachistica iniziavano a comparire nelle principali biblioteche , sia religiose che accademiche e laiche , a testimonianza della chiarezza e fruibilità dell'insegnamento delle scienze matematiche in essi contenuto .
Molte biblioteche si arricchirono così , nel corso del XV secolo delle trascrizioni di tali testi matematici , accanto ai codici latini e greci. Esemplare , in tal senso , secondo un inventario del 1407 , è la biblioteca allestita dai Gonzaga a Mantova . Ed è proprio in questa città che Jacopo si trasferì per proseguire i propri studi presso la Ca' Giocosa sotto la guida di Vittorino Rambaldoni da Feltre ( 1378 - 1446 ) . Vittorino , studente a Padova della Facoltà delle Arti e allievo di Giovanni Conversino ( 1343 - 1431 ) e del Barzizza ( 1360 - 1431 ) , manifestò un personale interesse giovanile per le scienze matematiche . Seguì l'insegnamento di Jacopo della Torre e cercò di avere da Biagio Pelacani di Parma , uno dei più tipici fisici moderni legato alle dottrine dei calculatores , l'iniziazione ai misteri geometrici degli Elementa di Euclide.

Negli anni trascorsi sotto la guida di Vittorino , Jacopo ebbe come compagni di studi futuri principi quali Ludovico Gonzaga e Federico da Montefeltro , chierici destinati alla carriera ecclesiastica come Giovanni Andrea Bussi , traduttore di Livio , divenuto poi segretario di Nicolò Cusano (1401 - 1464 ) , insieme ad una schiera di illustri umanisti e filologi . Il cremonese studiò il greco con maestri d'eccezione , come Giorgio di Trebisonda , chiamato da Vittorino ad insegnare alla Giocosa nel 1430 e Teodoro Gaza che vi insegnò nel 1440 . Del resto lo stesso Vittorino conosceva bene il greco dal momento che , come annota il Castiglione : " Per tutto l'inverno lo vidi che , dopo cena , leggeva , assolutamente all'improvviso , senza difficoltà alcuna , il libro di Euclide ad uno dei suoi scolari (6) ". E' assai probabile che lo stesso Jacopo , avendo già manifestato particolari attitudini in campo matematico , abbia potuto ascoltare una simile lettura direttamente dalla voce del maestro. Jacopo fu certamente guidato da Vittorino m che aveva seguito le lezioni di logica di Paolo Veneto , già allievo delle scuole di Oxford e di Parigi , a distinguere le caratteristiche logico-dimostrative delle argomentazioni legate alle procedure adottate da Euclide nelle diverse proposizioni : dalla " reductio ad absurdum " , alla " consequentia mirabilis " . Tutte conoscenze logicomatematiche di cui Jacopo farà tesoro quando dovrà affrontare la traduzione di opere matematiche complesse quali quelle di Archimede . Gli umanisti , infatti , si accostarono ai trattati matematici , da Euclide ad Archimede , come a compiute opere di logica . Alla morte di Vittorino , avvenuta nel 1446 , Jacopo gli successe sia come precettore dei figli della famiglia Gonzaga sia nella direzione della Ca' Giocosa . Ne è testimonianza la lettera di Ludovico III Gonzaga , datata 7 giugno 1449 e indirizzata al Pontefice Nicolò V . Jacopo conservò gli ideali di " vita pitagorica " appresi da Vittorino e secondo lo schema disciplinare , predisposto dal maestro , insegnò teologia e filosofia , logica e scienze matematiche . Ricorda in proposito Sassolo da Prato , già alunno e collaboratore di Vittorino nell'insegnamento della matematica e della musica dal 1438 al 1444 , " vengono quindi le Matematiche , l'Aritmetica , la Geometria , l'Astrologia e la Musica , le quali meritano propriamente d'esser chiamate discipline , come scienze esatte e positive " (7) .


Jacopo traduttore di Archimede
Nel 1449 , Jacopo si trasferì a Roma e nello stesso anno del suo arrivo presso la curia pontificia ricevette dal papa Nicolò V l'incarico di tradurre dal greco in latino il manoscritto oggi denominato come codice A contenente tutte le opere allora conosciute di Archimede (8). Tale codice era conservato nella biblioteca vaticana sin dal XII secolo . La decisione del pontefice fu certamente dettata anche dalla fama di profondo conoscitore delle lingue greche e latine e di " doctissimus mathematicus " che aveva preceduto Jacopo prima del suo arrivo a Roma . Egli aveva , infatti , già intrapreso la traduzione della " Bibliotheca historica universalis " dello storico greco Diodoro Siculo ( I sec. a.C.) . In un manoscritto , del 1469 , conservato oggi a Londra fu trascritta la traduzione di Jacopo dell'opera di Diodoro (9) . Nel volume primo dell'opera di Diodoro , Jacopo lesse la narrazione del viaggio di Archimede in Egitto e la sua invenzione della vite senza fine , detta " coclea " . Jacopo , inoltre , conosceva l'opera di Plutarco , presente nella biblioteca di Vittorino . Ed è a Plutarco che si devono interessanti osservazioni di carattere epistemologico sull'opera matematica di Archimede . Questo bagaglio di conoscenze pregresse consentì a Jacopo di accostare il testo archimedeo con competenza e di individuarne , grazie alla propria formazione umanistica , le diverse chiavi di lettura . Alla versione latina delle opere di Archimede Jacopo dedicò gli anni dal 1449 al 1453 , eseguendo anche la versione dei Commentarii ad Archimede composti da Eutocio di Ascalona( sec. V-VI d.C.) . Nella stesura della propria traduzione , Jacopo ebbe modo di consultare una precedente versione latina dei testi archimedei eseguita nel 1269 dal domenicano Guglielmo di Moerbeke (1215 - 1286 ) , custodita nella Biblioteca Vaticana .
M. Clagett ha condotto un'accurata analisi testuale , raffrontando la versione di Jacopo con quella del Moerbeke . Da questo studio emerge con chiarezza , come afferma lo stesso Clagett , che" .. Moerbeke's being literal , while Jacobus' is considerably freer " (10). Alcuni passi delle due traduzioni , raffrontati con l'originale greco , suffragano le tesi del Clagett . Ad esempio , Jacopo usa di preferenza il termine " portiones " anziché " sectores " , riferendosi alle aree comprese tra due tangenti e un arco del cerchio . In altri passi del manoscritto greco , ove si legge " λαμβανομένοισ " , Guglielmo traduce " acceptis " , mentre Jacopo rende con " sumptis " , accentuando il carattere ipotetico dell'assunzione . Si tratta evidentemente di due differenti stili di traduzione , oltre che della diversità tra il latino medioevale e quello dell'Umanesimo . Jacopo , redigendo la propria versione , ha ben presente la sua personale esperienza di docente e finalizza l'opera anche alla comunicazione orale costituita dalla lectio ai discenti del contubernium . Il testo deve quindi essere chiaro , comprensibile e scritto in lingua latina scorrevole, a differenza di quello letterale e conciso del Moerbeke . E' così riscontrabile una diretta correlazione tra l'attività di magister svolta
da Jacopo e le sue personali opzioni linguistiche e terminologiche nella traduzione delle opere archimedee . Lo attesta il raffronto diretto tra il testo greco e la versione latina di Jacopo . Ad esempio , nel libro primo dell'opera archimedea De sphaera et cylindro libri nel testo greco è scritto " .. κύκλω δοθέντος καί δύο μεγέθων άνίαων " e in latino , nella versione del cremonese , .. " circulo dato e duabus magnitudinibus in aequalibus " . Già nel corso del Quattrocento il manoscritto contenente le traduzioni archimedee di Jacopo ebbe numerosi lettori e importanti trascrizioni . Uno dei primi lettori della stesura manoscritta dell'opera di Jacopo fu il cardinale filosofo e matematico Nicolò Cusano ( 1401 - 1464 ) . Egli aveva come segretario a Roma proprio quel Giovanni Andrea Bussi , già compagno di studi di Jacopo a Mantova .
L'attribuzione a Jacopo della versione latina delle opere archimedee si ha , per la prima volta , nel 1456 nello scritto di Bartolomeo Facio De viribus illustribus liber (11) . La seconda e definitiva attribuzione delle opere di Jacopo si deve al Regiomontano ( Johann Muller , da Konigsberg 1436-1475 ) che nel 1462 , a Roma , eseguì una copia del manoscritto di Jacopo . Tale copia è ancora oggi conservata nella biblioteca di Norimberga (12) . Quando poi , nel 1470 , il Regiomontano curò una prima edizione a stampa delle traduzioni archimedee di Jacopo , l'umanista cremonese era già prematuramente scomparso , senza aver potuto rivedere e correggere il proprio lavoro . Nel 1474 , Regiomontano redasse un elenco delle opere scientifiche da lui stampare inserendovi anche quelle di Jacopo . Tale elenco fu noto , tra gli altri , anche a Copernico . La data di morte di Jacopo si può collocare tra il 1454 , anno immediatamente successivo alla conclusione delle traduzioni archimedee , e il 1456 dal momento che l'umanista Facio , scrivendo il tale anno , menziona la morte di Jacopo come prematura e da poco avvenuta . Risultano allora chiare le motivazioni culturali e scientifiche che indussero , nel 1544 , Thomas Gechauff , detto Venatorius , curatore della prima edizione a stampa delle opere in greco di Archimede e l'editore J. Herwagen ad aggiungere all'originale la versione latina di Jacopo da Cremona . Lo stesso Venatorius nella sua prefazione a questa edizione del Cinquecento precisa : " Non tam utilibus quam necessariis mortalium generi , veluti palam est legere in istis libris , quos Jacobus cremonensis in ea tempestate duolici honore dignuus , eum quod graecae doctus esset tum quod linguarum commercio adiutus , hanc opera solus viderentur absolvere posse in gratiam Nicolai V Rom. Pont. "(13) . L'edizione a stampa del Venatorius ebbe ampia diffusione in tutta l'europa .
Da questo momento in poi , gli studiosi del Cinquecento poterono leggere e approfondire le opere di Archimede , sia nell'originale greco che nell'elegante versione latina dell'umanista italiano Jacopo da Cremona . Per tutto il Cinquecento , infatti , l'opera di Archimede fu intesa come sintesi ideale delle scienze matematiche e , in particolare , la tradizione archimedea greco-latina , di cui Jacopo è rappresentante significativo , costituisce un tratto caratteristico delle ricerche matematiche del Cinquecento . In questo secolo la riedizione dei testi della scienza antica è uno degli impegni primari degli studiosi italiani. Tale attività non si limitava ad una semplice pratica erudita , ma postulava precise conoscenze filosofiche e scientifiche possedute dagli stessi traduttori .
E oggi compiutamente documentato che la traduzione , la correzione , il commento e l'ampliamento dei testi antichi , nel XVI secolo , aveva tre fondamentali funzioni culturali e didattiche : la revisione e l'aggiornamento del linguaggio scientifico , l'approfondimento di alcuni problemi aritmetici e geometrici già noti , l'introduzione di nuovi ambiti della ricerca matematica che costituiranno la premessa indispensabile per le successive scoperte scientifiche .

E' emblematico il fatto che nell'anno 1543 , un anno prima dell'edizione a stampa delle opere di Jacopo , vengono pubblicati sia il De revolutionibus orbium caelestium di Copernico sia la versione in lingua volgare italiana degli Elementa di Euclide ad opera di Nicolò Tartaglia ( 1506 - 1559 ). Lo stesso matematico bresciano traduce in latino alcuni scritti di Archimede pubblicandoli a Venezia nel 1565 . Per quanto riguarda la traduzione tartaleana dell'opera archimedea , è interessante osservare che egli ebbe tra i suoi protettori a Venezia , dal 1539 al 1546 , l'ambasciatore imperiale spagnolo presso la Repubblica veneta Diego Hurtado de Mendoza . Il Mendoza , bibliofilo e umanista , compare come interlocutore di Tartaglia nell'opera del bresciano Quesiti et inventioni diverse , quasi a sottolineare l'importanza del rapporto tra i due personaggi e gli interessi scientifici dello spagnolo.
Lo stesso Mendoza ebbe modo di consultare nella biblioteca Marciana di Venezia una copia manoscritta delle opere di Jacopo lasciatavi dal cardinale Bessarione nel XV secolo , e ne fece fare una trascrizione ancora oggi conservata a Madrid (14) . Benché taluni percorsi delle opere di Jacopo siano , per molti aspetti ancora inesplorati , il contributo delle sue traduzioni archimedee è riscontrabile anche nell'ambito delle università del Cinquecento . I nuovi testi che gli umanisti tradussero e commentarono entrarono a far parte così del circuito dell'insegnamento universitario e giocarono un ruolo non secondario nell'acceso dibattito che allora si svolse tra filosofi aristotelici e neoplatonici sulla natura della conoscenza matematica . Si discuteva allora sul grado di certezza della matematica sia come linguaggio che come strumento di conoscenza dell'universo fisico . Si scandagliavano le caratteristiche logiche della dimostrazione matematica , interrogandosi su questioni ontologiche relative ai fondamenti degli enti matematici . A questa disputa , sviluppatasi nella seconda metà del Cinquecento e denominata usualmente " de certitudine mathematicarum " (15) , prese parte anche il filosofo e matematico Giovanni Battista Benedetti ( 1530 - 1590 ) . Egli , già allievo del Tartaglia , sulla scorta delle conoscenze archimedee apprese dal maestro , prospetta nella sua
opera Diversarum speculationum mathematicarum et physicarum liber , del 1585 , una interessante ipotesi di matematizzazione della scienza . In particolare egli propone di sostituire alle opposizioni qualitative di Aristotele la scala quantitativa di Archimede (16) . Ma occorrerà attendere l'esperienza didattica
di Cristoforo Clavio perché i testi di Archimede vengono inseriti in un curriculum di studi , quello del Collegio gesuitico . Tale istituzione utilizzò largamente l'esperienza del precedente contubernium umanistico riprendendo per taluni aspetti le caratteristiche educative salienti delle scuole dell'Umanesimo . Il Clavio , docente di scienze matematiche nel Collegio romano , fece tesoro della propria esperienza di insegnamento per collaborare alla stesura dei programmi di studio dei collegi gesuitici . Lo stesso Clavio , dovendo
elaborare un programma di massima per l'insegnamento della matematica nei collegi retti dal suo ordine , compose un Ordo servandus in addiscendis disciplinis mathematicis (17) . Nel suo programma , oltre ai trattati euclidei e a interessanti riferimenti all'uso degli strumenti scientifici in campo astronomico , compare il chiaro riferimento ai testi di Archimede da Clavio citati con l'incipit latino dell'edizione a stampa : " Opera archimedis nonnulla " (18) .
Così le opere di Jacopo assunsero definitivamente la veste di testo scolastico , utilizzabile da docenti e discenti , funzione che il successore di Vittorino da Feltre aveva originariamente tenuto ben presente nel comporre le proprie traduzioni archimedee .
Maria Paola Negri
Università Cattolica - Brescia
" NUOVA SECONDARIA " , n. 5 ,pp. 76-79 , del 15 gennaio 1997
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1. AA.VV , Archimede,mito , tradizione e scienza , Atti del Convegno Internazionale , Firenze 1992 , pp. 165-197 .
2. C. Vasoli , Vittorino e la formazione umanistica , in N. Giannetto ( a cura di ) , Vittorino da Feltre e la sua scuola, Firenze 1981 , p. 18 .
3. H. Freudenthal , Ripensando l'educazione matematica , a cura di C.F. Manara , La Scuola , Brescia 1994 , pp. 5-16 ; C.F. Manara , M. Marchi , L'insegnamento della matematica , La Scuola , Brescia 1993 , pp. 139-158 .
4. Cfr. al riguardo Jacobus cremonensis , in M. Clagett , Archimedes in the Middle Ages , University of Wisconsin , Madison 1964 , pp. 321-342 non trad. in ital. ; e anche Jacopo da Cremona in P. Pizzamiglio , Le traduzioni matematiche gerardiane e la tradizione matematica cremonese , in P. Pizzamiglio ( a cura di ) , Gerardo da Cremona , " Annali della Biblioteca statale e Libreria civica di Cremona " , XLI 1990 , Cremona 1992 , pp. 108-110 .
5. G. Beaujouan , L'enseignement de l'arithmetique elementaire à L'Université de Paris aux XIII et XIV siecles , ( Barcelona 1954 , p. 124 ). Cfr M.P. Negri , Gerardo da Cremona e il rinnovamento dei modelli educativi del XII secolo , in P. Pizzamiglio ( a cura di ) , Gerardo da Cremona , Cremona 1991 , pp. 21-43; M.P. Negri , " Gerardo da Cremona : insegnamento e ricerca nelle scienze matematiche del XII secolo " , in Nuova Secondaria , n.10 , Brescia 1994 , pp. 74-77. E. Gamba, V. Montebelli , La matematica abachistica tra ricupero della tradizione e rinnovamento scientifico , in Atti del Convegno Internazionale
di studio " G.B. Benedetti e il suo tempo " , Venezia 1987 , pp. 169-202 .
6. F. Castilionensis , Vita Victorini feltrensis , traduzione italiana di E. Garin , in Il pensiero pedagogico dell'Umanesimo , Firenze 1958 , p. 504 .
7. Ibidem , p. 505 .
8. Il codice A tradotto da Jacopo è un manoscritto bizantino del IX secolo composto per ordine dell'imperatorre Leone di Tessalonica detto Iatrosofista . Contiene tutte le opere di Archimede ad eccezione di : I galleggianti , Sul metodo , Stomakion , Il problema bovino . J. L. Heiberg , Archimedis opera omnia , Leipsiae 1913. Le traduzioni archimedee a tutt'oggi attribuite a Jacopo sono precisamente : De sphaere et cylindro libri II ; Circuli dimensio ; De conoidalibus et spheroidibus figuris ; De lineis spiralibus ; De aequiponderantibus o planorum equaeponderantium inventa vel centra gravitatis planorum libri II ; De arenae numero ; De quadratura parabolae ; di Eutocio : Commentarius in primum et secundum Archimedis de sphaera et cylindro, Commentarius in circuki dimensio , Commentarius in primum et secundum aequiponderantium .
9. MS London , BM Harl : 4196. 2v. L'esistenza del manoscritto fu segnalata da P.O. Kristeller a M. Clagett , Cfr. M. Clagett , Archimedes .., cit. , p. 325 .
10. M. Clagett , Archimedes ... , cit. , pp. 338-339 .
11. P.O. Kristeller , The Humanist Bartolomeo Facio , in From the Renaissance to the Counter Reformation , New York 1965 , pp. 56-74 .
12. Nuremberg-Stadtbibl. Cent. V.15. A. C. Klebs , Incunabola scientifica et medica , in "
Osiris " , IV 1937 .
13. Archimedes , Opera quae quidem extant omnia , a cura di Th. Gechauff Venatorius , Basilea 1544 , pp. 4-5 . E' opportuno rammentare , in questi momenti aurorali dell'editoria europea , la fattiva collaborazione e la specifica competenza del curatore e dell'editore delle prime opere scientifiche a stampa . Cfr. anche F. Arisi, Cremona literata , II , Parma 1706 , p. 185 .

14. Madrid Biblioteca dell'Escorial f. III. 9.
15. A. De Pace , Le matematiche e il mondo : ricerche su un dibattito in Italia nella seconda metà del Cinquecento , Milano 1993 . E. Gamba , V. Montebelli , Le scienze ad Urbino nel tardo Rinascimento , Urbino 1988 , pp. 60-69 .
16. G. Vailati , Le speculazioni di G.B. Benedetti sul moto dei gravi , Torino 1888 .
17. La " Ratio studiorum ", a cura dei Gesuiti di " La civiltà Cattolica " , Roma/Milano 1989 .
18. A.G: Garibaldi , " Il contributo dei Gesuiti alla didattica e alla critica dei principi della matematica " , in Il pensiero matematico nella ricerca storica italiana , Ancona 1992 , pp. 194-208 . Catalogo della Biblioteca di Scienze C. Viganò , Milano 1994 . 






sabato 2 marzo 2013

Le vie di Archimede tra Grecia, Italia e Francia


Les Belles Lettres pubblica un testo sulla tradizione
del matematico greco nella cultura umanistica italiana

Galileo leggeva ArchimedeQuasi sicuramente conosceva l’editio princpes in greco e latino delle opere del grande scienziato antico uscita a Basilea nel 1544. 


Il merito della circolazione di questo autore, e il rinnovamento che recava negli studi matematici in una lingua allora di uso comune tra i dotti, è di Iacopo da San Cassiano, vissuto nel XV secolo. Aveva professato i voti presso una comunità di canonici che seguivano la regola di Sant’Agostino. Nella seconda metà del Quattrocento, per suo merito, molti poterono accostarsi a un corpus prezioso di scritti. In quel mondo abitato da Piero della Francesca o da Leonardo da Vinci, dai dotti dei circoli umanistici di Milano, Bologna, Ferrara, Roma.

D’altra parte, Iacopo da San Cassiano lo si scopre tra Pavia, la corte dei Gonzaga e nei sacri palazzi di Roma. Ora un denso studio, intitolato appunto Archimede latino, che inaugura la collana «Sciences et Savoirs» coordinata da Francesco Furlan e pubblicata da Les Belles Lettres di Parigi (il volume ha 406 pagine, con numerose tavole, costa euro 75), ricostruisce l’avventura dell’Archimede latino, cominciando dalla figura di Iacopo, proseguendo con l’esame di autografi e testimoni, infine offrendo l’edizione critica di due testi, ovvero La misura del cerchio e La quadratura della parabola.
La cura si deve a Paolo d’Alessandro e Pier Daniele Napolitani. Si tratta di libro di cultura italiana stampato a Parigi, in una collana che prevede i Pensieri di Paolo Sarpi in tre tomi o il Portulario di Grazioso Benincasa, coordinata da Francesco Furlan che opera nella capitale francese, scritta in italiano. 
Ma il nostro umanesimo per sopravvivere deve andarsene in esilio?

articolo tratto dal Corriere della Sera del 27/11/2012 a firma di Armando Torno

mercoledì 2 gennaio 2013

Contributo della Compagnia di Gesù alla ricerca e didattica delle scienze




Esiste un contributo in questo settore del sapere dato dalla Compagnia di Gesù (cioè dai Gesuiti) (SJ di seguito)? Come viene comunemente considerato?
Ma che senso ha, per un appartenente a questo specifico ordine religioso lo studio (e, quindi, anche quello delle scienze)? Esistono dei contributi veramente significativi e da parte di chi?
Perché parlare di didattica? E, in maniera più specifica, di didattica delle scienze, sempre riferendosi alla SJ?

Cercherò di rispondere a queste domande, rispettandone l'ordine.


Valutazioni sui contributi della Compagnia di Gesù alla ricerca e didattica delle scienze
Maltese (1989) sostiene che “la SJ fu il principale protettore dello studio delle scienze fisiche e matematiche nel  XVII secolo, per  la  qualità  del  suo sistema educativo,  dei  suoi insegnanti  e ricercatori. Questo non deve tuttavia indurre ad una sovrastima”. Aggiunge che “il ruolo dell'Ordine fu al più di conciliare il vecchio al nuovo”. Inoltre “l'apporto scientifico gesuita fu elemento fondamentale ed universalmente accessibile di unione tra vecchio e nuovo”. Infine “la crescita del caratteri nazionali della scienza, sotto forma delle Accademie scientifiche nazionali, relegò l'opera dei Gesuiti in una posizione sempre meno importante”.
Nell'introduzione  al  volume  dedicato  a  Giambattista  Riccioli,  Maria  Teresa  Borgato  (2002)
definisce il vocabolo “merito” non in senso valutativo, ma puramente nel senso di argomento trattato. Anzi. All'interno del medesimo volume, nel contributo di Baldini (2002), viene espresso un duro giudizio sulle parole scritte da Giambattista Riccioli SJ sul confratello, Francesco Maria Grimaldi SJ, in occasione della sua morte che furono di prevalente natura morale e non di elogio per i meriti scientifici.
Naturalmente  non  si  possono  tacere  le  posizioni  contro  le  tesi  di  Copernico,  sostenute,  fondamentalmente, a causa di una tendenza che vedeva, all'epoca, l'intendere il contenuto della Bibbia  interpretabile  in  toto alla  lettera  (tendenza,  che,  a  quell'epoca,  era  prevalente)  come sottolineato da Kelter (1995). Ma, nel medesimo scritto sottolinea come venissero accettate, da studiosi della SJ, le ipotesi copernicane.

A prima vista la causa di questi giudizi – in particolar modo il primo – potrebbero risiedere nel fatto che, all'inizio del XVII secolo, come ricorda lo stesso Maltese (1989), si intendesse per “fisica” una scienza  dei  corpi  naturali  qualitativa  ed  astratta,  una  scienza  delle  cause  e  non  degli  effetti (comprendeva, da un lato i anche i fenomeni psicologici e organici, mentre escludeva la matematica e gli esperimenti). Rientravano invece nella Matematica applicata i saperi come l'ottica, astronomia, idraulica ed altri simili. Cosicché la “matematica applicata” non veniva insegnata nell'università, mentre era insegnata (in lingua volgare) nei collegi  ella SJ. In tal caso avrebbe senso dire che il contributo alla fisica (usando, quindi, la definizione di allora) non   da sovrastimare. Però, citando i contributi in astronomia, ottica e così via non mi posso trovare d'accordo. Non sono nemmeno d'accordo con il giudizio di Baldini, che lascia intendere – nemmeno troppo – che la SJ  non considera troppo l'opera di Grimaldi – presa, invece, in grande considerazione da altri studiosi. Bisogna tener conto, infatti, che l'espressione delle parole di elogio, di carattere morale, espresse dal Riccioli, sono scritte non da un uomo qualsiasi, ma da un religioso. Sembra, dunque, che talvolta non si consideri il contesto in cui i pregi e le lacune sono nati e cresciuti. Se non quando si debba esprimere una critica (anche corretta). E questo è il caso di Kelter (1995).

Piuttosto risulta interessante questo cercare di attribuire ad un intero ordine religioso dei difetti, mentre non si considerano le opere dei singoli in quanto contributi. Dall'altra parte emerge il fatto che si stia parlando di “scienza gesuitica”. È possibile tutto ciò? Il paradosso risulta nel fatto che dei religiosi, il cui compito risieda nel salvare le anime, siano stati in grado di produrre un corpus di 5000 opere, con argomenti, che toccano praticamente ogni branca delle scienze matematiche e fisiche. Il paradosso è conciliabile, secondo Harris (1995), nel ritenere il contributo come forma di ricerca ad una sottostante coerenza al fine di costruire un nuovo modo di professare la fede tra tutti e anche fra le persone istruite. Si tratta, dunque, di un modo per cercare il dialogo tra la SJ e la società. Risulta, dunque, inadeguato il cercare di conciliare il lavoro scientifico come espressione organica e coerente dell'attività religiosa. Piuttosto è interessante l'orientamento più recente di “confessionalizzazione”, che consiste, in questo caso, nel “cristianizzare le masse e spiritualizzare


la vita di ogni giorno”. Ecco che, attraverso le opere di educazione, viene mal interpretato il ruolo di “portatori di cultura, che la SJ ha assunto al fine di diffondere la cristianizzazione.
Riassumendo. Esiste un innegabile contributo della SJ alle scienze (analizzeremo, in seguito, il contributo di alcuni studiosi membri della Compagnia) e spesso viene mal interpretato partendo dal presupposto della dicotomia tra scienza e fede, senza considerare le ragioni che hanno spinto quest'Ordine ad avere al suo interno dei componenti, che tanto si sono dedicati a discipline di carattere scientifico.

Lo studio e il suo significato spirituale
Nello suo scritto, Mucci (2011) si domanda quale sia il senso dello studio come attività spirituale, in particolar modo riferendoci agli scritti di S. Ignazio di Loyola. In una lettera a S. Francesco Borgia SJ (Roma, luglio 1549), S. Ignazio scrive che “quelli che studiano per il servizio di Dio e il bene generale della Chiesa” hanno il dovere di “mantenere le loro facoltà intellettuali disposte allo sforzo dello studio e conservare la sanità”. Costoro non devono essere gravati di lunghe preghiere, perché “Dio non si serve dell'uomo solo quando prega, ma ci sono dei momenti in cui Dio è servito con altre azioni più che con la preghiera”. Scrive (lettera a Bartolomeo Hernàndez, Roma, 21 luglio 1554) che “quando lo studio è puramente ordinato al servizio divino, è in sé ottima devozione”.
Riteneva, infine, che fosse necessaria una compensazione equilibratrice tra le due forme spirituali e parlava di escuela del entendimiento ed escuela del afecto. La prima è la scuola della formazione e degli studi, mentre la seconda è incentrata sull'interiorità dell'io umano.
Riassumendo.  Non  c'è  dissidio  tra  vita  interiore  e  vita  di  studio,  a  patto  che  la  seconda  sia “ordinata”, cioè orientata (ovvero: serva allo scopo) al servizio divino.



Esistono dei contributi veramente significativi?
Tracceremo, in questo capitoletto, il profilo di alcuni studiosi, che durante la loro vita all'interno della  SJ,  si  dedicarono  con  particolare  merito  alle  scienze,  con  particolare  riguardo  a  quelle matematiche e fisiche.
Cristopher Clavius (1538-1612). meglio noto in Italia come Cristoforo Clavio (Bamberga, 25 marzo 1538 – Roma, 12 febbraio 1612), è stato matematico e astronomo, noto per il suo contributo alla definizione del calendario gregoriano. sarebbe la latinizzazione di Christoph Clau (o Christoph Klau). Secondo altri, potrebbe essere una semplice traduzione di Christoph Schlüssel. Nel 1555 entra nell'ordine dei Gesuiti e l'anno successivo viene inviato all'Università di Coimbra, dove i gesuiti avevano fondato un loro collegio. Nei corsi universitari eccelle nelle discipline matematiche, e  nel  1560  esegue  osservazioni  astronomiche  su   una  eclissi  solare  totale  che  lo  inducono  a indirizzarsi agli studi astronomici. Clavius diventa il più  utorevole matematico dei gesuiti, e in quanto tale scrive un gran numero di testi che hanno una elevata influenza. Sono di Clavius una versione degli Elementi di Euclide (1574), una delle più autorevoli del suo   mpo, un commento alla Sfera di Sacrobosco (1581), libri di aritmetica pratica, di geometria, di algebra e sull'astrolabio.

Nel  1579 viene nominato Primo  Matematico  nella Commissione  pontificia per la riforma  del calendario giuliano. La definizione del nuovo calendario ottiene grande successo, e viene adottata nei paesi cattolici nel 1582 per ordine del Papa Gregorio XIII. Come riconoscimento di questa sua attività  viene  soprannominato  Euclide  del  XVI  secolo.  Come  astronomo  segue  il  modello geocentrico del sistema solare, il modello ortodosso suffragato dall'opera di Claudio Tolomeo, riconoscendo però i problemi del modello tolemaico. All'inizio del XVII secolo è uno dei più autorevoli astronomi, e Galileo gli fa visita nel 1611 per discutere con lui le osservazioni da lui eseguite  con  il  telescopio.  Nell'ultima edizione  (1611) di  In  Spheram  Joannis  de Sacrobosco commentarius, che presenta una visione dell'astronomia dell'epoca, riporta le nuove scoperte di Galileo con il telescopio (anni 1609-1610) nonché le osservazioni del 1570, 1600 e 1604. Riporta
inoltre della cometa del 1577. Mostrando, così, che i cieli non erano incorruttibili a differenza di quanto  sostiene  la  dottrina  aristotelica  (e  anche  le  fasi  di  Venere  e  i  satelliti  di  Giove,  che mostravano che non tutto gira intorno alla Terra), afferma che è necessaria una riforma delle orbite celesti. Clavius accetta le nuove scoperte, anche se nutre dubbi sulla presenza di montagne sulla Luna (ironia della sorte, a Clavius è dedicato uno dei maggiori crateri lunari). Infine insiste sulla necessità della matematica per trattare i temi di fisica, dato che “per la loro ignoranza in matematica alcuni professori hanno commesso molti gravissimi errori” e dato che “senza la matematica la filosofia naturale resta monca”.

Giovanni Battista Riccioli (1598-1671). Nacque a Ferrara il 17 aprile 1598 e morì a Bologna il 25 giugno 1671. Ha calcolato latitudine e longitudine di molte località; ha disegnato una mappa lunare (insieme a Grimaldi), pubblicata nell'Almagestum Novum (1651), introducendo una nomenclatura in parte ancor' oggi utilizzata. Ha compilato un catalogo stellare, osservato una stella doppia, notato le bande colorate  parallele passanti per l'equatore di Giove. Ha sviluppato, infine, un metodo per calcolare il diametro del Sole (insieme a Grimaldi).

Daniello Bartoli (1608-1685). Nacque a Ferrara il 12 febbraio 1608 e morì a Roma il 13 gennaio 1685. Famoso per la sua Istoria della Compagnia di Gesù, scrisse anche dei trattati scientifici, tra i quali  i  quattro  libri  Del  suono  de'  tremori  armonici  e  dell'udito (1679),  in  cui  descrive  la propagazione  del  suono,  comparandola  con  “i  circoli  che  si  forman'  nell'acqua”  (stagnante). Sottolinea, nel medesimo luogo, che la filosofia naturale “douersi tenere colle sperienze”.

Francesco Maria Grimaldi (1618-1663). Nacque a Parma il 2 aprile 1618 e morì a Bologna il 28 dicembre 1663. Stretto collaboratore di Giovanni Battista Riccioli, è famoso per aver scoperto e definito la diffrazione della luce: “lumen propagatur seu diffunditur non solum Directe, Refracte, aut Reflexe, sed etiam alio quodam quarto modo, DIFFRACTE”. All'interno del suo famoso testo, il De Lumine (1663), suddiviso in due volumi, tratta, sperimentalmente sia della natura della luce in quanto corpuscolo sia della luce parlando di “fluido” che si propaga  undulatim.  Nel medesimo trattato emerge l'orientamento dell'Autore nel non ritenere un approccio modellistico – validato dagli esperimenti – predominante rispetto all'altro. Fu citato da Newton nella sua “Ottica” per la scoperta della diffrazione.

Giuseppe Ruggero Bošković (1711-1787). Nacque in Croazia (Ragusa) il 18 maggio 1711 e morì a Milano il 13 febbraio 1787. Uno dei primi studiosi ad accettare le teorie di Newton. Boscovich fu il primo a fornire una procedura per il calcolo dell'orbita di un pianeta sulla base di tre osservazioni della sua posizione e diede anche una procedura per determinare l'equatore di un pianeta. Inoltre, formulò quella che oggi è chiamata ipotesi di Boscovich ed è alla base della definizione fisica di corpo rigido. Pubblicò un libro sulle macchie solari (1736). Non mi dilungherò su di lui, essendo già stata trattato più volte e approfonditamente in questa sede il suo profilo e i risultati dei suoi studi.


Pierre Teilhard de Chardin (1881-1955). Nacque a Orcines (Francia) il 1 maggio 1881 e morì a New York il 10 aprile 1955. Noto come paleontologo e come teologo. Meno noto per alcune  considerazioni  interessanti applicabili alla  fisica dei sistemi complessi, con particolar riguardo all'ecofisica, disciplina neonata, che tratta l'utilizzo della fisica nella descrizione degli ecosistemi. Sviluppa il pensiero di Vladimir Vernadskij (V. fu colui che coniò il termine biosfera e noosfera). In un suo testo del 1952, pubblicato per la prima volta nella Revue des questions scientifiques il 20 ottobre di quell'anno, propone uno schema dell'evoluzione umana rappresentabile come misura della complessità del sistema in funzione dell'entropia.
Tali temi sono attualissimi (cioè vengono proposti come nuovi nella letteratura scientifica degli ultimi decenni).


Georges Edouard Lemaître (1894-1966). Nacque a Charleroi (Belgio) il 17 luglio 1894 e morì a Lovanio il 20 giugno 1966. Fu il primo a capire che lo spostamento verso il rosso (Hubble, 1931) della luce delle stelle era la prova dell'espansione dell'universo e a proporre la legge di Hubble, secondo la quale vi è una proporzionalità fra distanza delle galassie e loro velocità di recessione.
Nel 1927, infatti, pubblicò l'ipotesi dell'atomo primigenio, oggi nota come teoria del Big Bang, basata  sulla  relatività  generale,  per  spiegare  entrambi  i  fenomeni.  Riporta  le  due  seguenti affermazioni nelle conclusioni del lavoro appena citato: (1) la massa dell'universo è costante ed è legata alla costante cosmologica dalla relazione di Einstein; (2) il raggio dell'universo cresce senza interruzione fino ad un valore asintotico R0 per  t ->∞ .

Riassumendo. Emergono dei contributi interessantissimi di membri della SJ e di carattere non secondario. L'opinione secondo la quale il contributo della SJ (intesa come contributo dei suoi componenti) alle scienze, con particolare riguardo a quelle fisiche, sia di sola unione tra vecchio e nuovo e non già di originalità è, dunque, inesatta e riduttiva. Certamente è pretenzioso ritenere, invece, che un ordine religioso  in toto finalizzi la propria opera nel dare contributi alla scienza, perciò, in tal caso, i giudizi espressi partono da un punto di vista, evidentemente, assurdo.



Il ruolo della didattica
Veniamo  all'ultimo  punto.  Per  essere  buoni  scienziati,  non  sarebbe  necessario  sottolinearlo,  è indispensabile, prima, studiare. Perché insegnare la scienza? Qual'è l'approccio allo studio che la SJ
propone e che ha permesso di annoverare tra i “suoi” anche degli scienziati? Una risposta alla prima domanda viene dallo scritto di Tuker (2001). La scienza è un mezzo di promozione della giustizia sociale, poiché genera informazioni, che possono essere utilizzate per rimediare  alle ingiustizie, dato che la  più elementare forma  di legame  dell'uomo  dalla  natura dipende dall'assoluta dipendenza fisica (aria respirabile; acqua bevibile; ecc.). Questa è l'importanza attuale delle scienze fisiche (con particolare riguardo a quelle ambientali). Per il passato – ma ancora  oggi – è interessante anche  la proposta di  Harris  (1995) di “cristianizzare le masse e spiritualizzare la vita di ogni giorno”. Direi che un connubio tra le due risposte possa, in prima approssimazione, dare risposta a questa domanda.
La seconda domanda richiederebbe una lunga trattazione, che in questa sede non è possibile. Cercherò di dare, quindi, una risposta sintetica. «Premesso che lo scopo, che la Compagnia direttamente persegue, è di aiutare l'anima dei suoi soggetti e quella del prossimo nel conseguimento del fine ultimo, per cui sono state create; e che per questo, oltre l'esempio della vita è necessaria la dottrina e la maniera di presentarla; dopo che in essi si sarà riscontrato il debito fondamento del profitto nelle virtù, si dovrà innalzare l'edificio
delle lettere e acquisire la maniera di servirsene per aiutare a conoscere e a servire meglio Dio.... Ecco  perché la Compagnia accetta i Collegi e le università...» (Cost. n. 307)

Riporto passi dello scritto di Mario Guarino SJ (1974). Il P. Pietro Ribadeneira, rifacendo spesso a ritroso il cammino fatto dalla Compagnia di alcuni decenni, non poteva dimenticare le parole dettegli da s. Ignazio una sera di fine settembre del 1549 alla vigilia della sua partenza per Palermo, dov'era destinato a insegnare retorica nel Collegio d'imminente apertura: «Se viviamo altri dieci anni, Pietro, vedremo grandi cose nella Compagnia. Se viviamo? Se vivrete voi, le vedrete; perché io non credo di dover vivere tanto». Queste parole dovevano rivelarsi profetiche, specialmente se rapportate al primo ‘600, ad appena 70 anni dalla nascita dell'Ordine. A quella data, secondo i dati fornitici dallo stesso P. Ribadeneira in appendice al suo volume «Illustrium Scriptorum Societatis Jesu» esso conta già più di 10 mila membri e gestisce circa 300 Collegi, di cui una quarantina circa fuori Europa. Tale contesto spiega gli orientamenti di principio e le scelte pratiche proposte e imposte dal Loyola alla propria istituzione. Egli intese appieno l'urgenza e la portata del mezzo principe della ricostruzione etico-religiosa della società del tempo: l'educazione, cui infatti riservò un'intera sezione della sua opera legislativa (la Parte IV delle Costituzioni), e, negli ultimi anni, una vasta aliquota del suo carteggio. La funzione, per così dire liberante, da lui attribuita all'intervento educativo, trovò consensi persino formali in tutto l'Ordine: si pensi all'asserzione enfatica. uscita dalla penna del gesuita spagnolo Juan Bonifacio in un suo celebre, ma ormai introvabile, opuscolo sull'argomento: «Puerilis institutio est renovatio mundi». Continua ancora. Centro di attuazione fu, nei primi tempi, l'università pubblica, alla cui ombra stabilirono i loro domicili i giovani gesuiti, ancora in via nel compimento dei loro studi. Queste case di coabitazione, ma prive di docenti, costituirono i Collegi nella prima accezione del termine. L'istituzione suggerita dal gesuita P. Lainez e approvata da Paolo III (1540) non costituiva allora una novità. Solo che i Collegi voluti da s. Ignazio rimasero esenti dalle ingerenze delle autorità accademiche, ad esclusivo uso degli studenti gesuiti, privi d'insegnamento. Ci fu quindi una reale, laboriosissima gestazione dell'apostolato educativo in quell'Ordine nuovo che fu la Compagnia di Gesù. Alla futura originalità di fisionomia e di struttura non poteva non correlarsi una specie di iniziale brancolamento nella ricerca dei mezzi realizzativi. Si procedette dunque, per assaggi, che però, inizialmente, non coinvolsero il settore educativo. Il perseguimento di ideali pedagogicoumanistici non fu effetto di programmazione, ma di particolari congiunture che fecero inserire in questa anche l'attività dell'insegnamento e della formazione in generale. Vi si giunse per una via lunga e lenta e partendo da zero: «niente studi né lezioni nella Compagnia»: è la prima decisione del nucleo di avvio. Né studi generali né particolari, ma solo le indispensabili ripetizioni, le dispute, gli altri esercizi scolastici.

«Nostro compito è di risollevare la scienza, restaurare la teologia, la religione e ancor più prepararvi gli  alunni»  scriverà  s. Ignazio  al  duca  di  Baviera.  Questa  preparazione  consiste  nella  cultura dell'intelligenza mediante le scienze inferiori: le lettere umane, la filosofia e le scienze. Tutto il
piano ignaziano di studi è condensato in queste linee; lo scopo finale: la teologia, attraverso la quale i docenti devono accendere come «dei piccoli fuochi» nell'animo dei discepoli affinché essi tendano con tutto lo sforzo verso di essa come a traguardo dei loro studi di filosofia e di scienze.
Particolarmente caratterizzanti sono i seguenti che si ricavano dalla Parte IV delle Costituzioni:
I) Una presa di posizione chiara e netta sul problema della formazione intellettuale, perché s'insiste da una parte sulle lettere classiche come il fine perseguito di un umanesimo integrale lo richiede, e d'altra parte si attribuisce alla teologia il primato per raggiungere la formazione di un umanesimo cristiano (c. 12).

II) La conservazione del principio di unità nel programma scolastico e nella direzione della scuola (c. 17).
III) Alta considerazione per il corpo insegnante e la personalità del docente giudicata più importante dello stesso programma di studi e delle prescrizioni pedagogiche (c. 13).
IV) Introduzione della gratuità dell'insegnamento impartito dalla Compagnia (cc. 2 - 3 - 7)
V)  Armoniosa  unità  dell'istruzione  e  dell'educazione,  sottolineando costantemente  il  principio: imparare per saper vivere (Introduzione alla P. IV e c. 11).
Il secondo che si concretizzerà nella norma sancita nelle Costituzioni che «la direzione intellettuale e morale di tutta l'università» sia nelle mani di un «rettore» della Compagnia, che ne «avrà la responsabilità o  sovraintendenza e il governo» (n. 490) scaturì, come abbiamo visto, sopra, dalla deficiente preparazione di docenti adatti nelle università pubbliche. Di qui la norma che «il rettore, dopo un conveniente esame, vedrà e deciderà quanto tempo debba darsi ad una materia, e quando si debba passare ad un'altra» (Cost. n. 357) e quindi la decisione di organizzare Collegi con scuole e direzione  proprie,  con  docenti  gesuiti  possibilmente  (Cost.  n.  457)  che,  come  prima  cosa,  si facessero capire dagli studenti e li spingessero, ma progressivamente, alla conquista del sapere.

Come secondo passo essi dovranno stimolare l'impegno individuale mediante l'emulazione, facendo collaborare attivamente l'intera classe, anche se numerosa (Cost. n. 456). A proposito dell'alta  considerazione di cui all'inizio godevano i docenti dei nostri Collegi, il P. Ribadeneira scrive: «Se in poco tempo i nostri  alunni fanno rilevante progresso nelle lettere, ciò deriva  dal metodo che adottiamo». Ordine e metodo d'insegnamento da parte dei docenti furono giudicati tanto essenziali fin dall'inizio che, per distinguere il loro codice pedagogico, i gesuiti non trovarono altro termine più adatto di «Ratio atque institutio studiorum». La gratuità dello insegnamento era indirettamente legata all'autosufficienza economica di un Collegio, che perciò si voleva «fondato» come si diceva



allora mediante un reddito fisso, abitualmente agganciato alla proprietà fondiaria di benefattori.
La Ratio Studiorum nasce come regolamentazione, in realtà, del Collegio Romano, nel 1551 e da lì si sviluppa nelle sue successive forme, seguita, nelle sue successive elaborazioni ad una forma più completa, data da S. Francesco Borgia SJ nel 1569, che regolamenta gli studi inferiori (tra cui quelli di fisica evidentemente).
Il contributo ai testi delle prime versioni della Ratio (1586 e 1591) dato da Clavius emerge nelle frasi di elogio della matematica, senza la quale “la nostra accademia sarebbe priva di un grande ornamento”. Si propone così un programma di tre anni per un gruppo ridotto di giovani di talento. A loro si devono spiegare gli Elementi di Euclide, la geografia e l'astronomia e si propone l'istituzione di una accademia di matematica, per coloro che avessero mostrato maggiore interesse, dopo aver terminato  gli  studi  di  filosofia.  Ricordiamo  che  all'interno  della  matematica,  all'epoca,  erano compresi studi di ottica, astronomia, idraulica e così via, noti col nome di matematica applicata. In senso più specifico, tenendo conto di una struttura costituita da  prelectio – lectio – repetitio, la prelectio (ovverosia la definizione dei risultati da raggiungere nell'apprendimento, il metodo di lavoro per gli alunni, i problemi da affrontare, le definizioni utili per affrontare il tema da svolgere, i difetti dei precedenti lavori e così via) sappiamo che, nel caso della matematica, debba avere una ampiezza (non annuale, ma per ogni giorno di lezione nel secondo anno) di tre ore circa (edizione della Ratio del 1600). Come abbiamo, poi, già sottolineato, è prevista la possibilità di approfondire questi studi per coloro che mostrino particolari doti.

Riassumendo. La fisica e la matematica applicata rivestono, all'interno di un organico e strutturato
progetto educativo “volto a risollevare la scienza e restaurare la teologia e la religione” (le parole
virgolettate sono di S. Ignazio), un ruolo importante e di base, tanto da far parte degli studi inferiori (quindi, di base). È ritenuta indispensabile ed insegnata in lingua volgare agli alunni per un anno intero. La riflessione sulla Ratio continua ancor oggi parlando di Paradigma Pedagogico Didattico, utile termine di confronto per tutti gli insegnanti di tutte le materie, con un approccio agli studi che ha più di quattrocento anni di vita.



Conclusioni
Dobbiamo distinguere il contributo della SJ  in toto da quello di alcuni dei suoi componenti. Nel primo caso bisogna sottolineare i meriti nel creare una struttura organica nell'insegnamento di tutte le discipline, definendo delle regole chiare di gestione dei Collegi e delle materie e del metodo di insegnamento, basato sul methodus parisiensis (cioè quello osservato da S. Ignazio stesso durante i suoi studi alla Sorbona a Parigi). Per quanto riguarda il contributo alla ricerca scientifica (che, evidentemente non è scopo di un ordine religioso) emergono risultati di grandissima importanza, come descritto prima. Certamente i giudizi dati complessivamente alla SJ partono da un punto di vista sbagliato, presupponendo un ruolo che la SJ si assume all'interno delle scienze che sia fine a se stesso e sminuendo in parte i risultati ottenuti (se non dimenticandoli talvolta).

(tratto da una conferenza di Marco Casazza, Dipartimento di Fisica, Università degli Studi di Torino)

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